Alcol, scarafaggi e la foresta di Bastar

Viaggio al centro dell'India


Sono le 6 di pomeriggio, il sole scende pigro dietro alle case di Raipur, capitale del Chhattisgarh. E Manoj ha bevuto. Di brutto. L'alito gli puzza di alcool. Gli occhi si muovono a caso. L'andatura è instabile. La sua lucidità è annegata in qualche whiskaccio da quattro soldi consumato poco prima di andare al lavoro. E ha deciso di presentarmi l'intera stazione dei bus di Raipur.

“Eeeh, Raj! Vieni qui a conoscere questo mio amico giornalista! E' arrivato dall'Italia!”

Ci siamo conosciuti qualche minuto prima, quando gli ho chiesto informazioni sui come arrivare alla foresta di Bastar. Lui e il fratello Raj hanno una compagnia che copre la tratta fino a Bijapur, nell'estremo sud dello Stato. “Tu vai con il mio autobus, non voglio sentire storie. Sarai mio ospite”, dice, mentre mi abbraccia come un fratello che non vede da anni, scarrozzandomi in giro a salutare autisti, meccanici, passeggeri e familiari.

Raj è più serio di lui, avrà una quarantina d'anni. Anche se incontrarlo per strada giureresti che è un avanzo di galera. La sua faccia è letteralmente coperta di cicatrici: una ragnatela di tagli profondi, che dalle mascelle salgono su fino al naso, per poi deviare bruscamente sul sopracciglio destro e scendere in picchiata sotto l'occhio sinistro. A guardarlo bene assomiglia a Luis Guzmán, l'attore portoricano noto per il ruolo di "Pachanga" in Carlito's Way.

Nonostante l'aspetto, Raj sembra più serio del fratellino. Non beve, ma telefona, controlla, si assicura che i suoi mezzi partano in orario, che ai passeggeri non manchi nulla. Mi dà appuntamento l'indomani mattina alle 5, orario di partenza del suo bus per Bijapur: ci vorranno ben 16 ore. Si prospetta un altro viaggio da incubo.

Manoj – che nel frattempo si è messo a litigare furiosamente con un passeggero – mi bracca di nuovo per farmi salire in moto e continuare la serata etilica. Insieme a lui c'è il figlio di tre o quattro anni. In una via trafficata c'è un locale con insegna al neon blu fosforescente. Entriamo.

[I bar in India si assomigliano tutti. In Rajasthan, Assam, Chattishgarh. Ai tavoli sono spesso seduti uomini soli e silenziosi, avvolti in una penombra che conferisce loro un'aria un po' losca. E' raro veder entrare delle donne. C'è sempre un televisore acceso, il 99% delle volte su una partita di cricket. Si serve birra e alcool vari. L'aria condizionata esce a manetta dai muri. E verso una certa ora c'è sempre qualcuno che esce inciampando miseramente su se stesso e farfugliando qualcosa. Perché da queste parti, chi alza il gomito lo fa sul serio. Pensi a bevitori accaniti e ti vengono sempre in mente gli stessi: russi, finlandesi, mitteleuropei vari. Ma gli indiani non sono da meno. Anzi. Una volta ad Attari, uno squallido avamposto in pieno Punjab, vicino al confine con il Pakistan, ho visto dei tizi entrare in una bettola dove stavo mangiando e ingollare bottiglie da poco meno di mezzo litro di whisky da quattro soldi nel giro di 5 minuti. Non è roba che va giù facile, se non ci sei abituato. Sembra di bere gasolina. Forse è gasolina]

Manoj ordina un succo d'ananas per il figlio e due grosse Kingfisher Strong. Un'ora dopo siamo di nuovo sulla moto, il vento in faccia, completamente storti, con il bimbo pericolosamente seduto sul manubrio, a prendere le carreggiate in contromano nel traffico serale di Raipur.

La mattina seguente, alle 5, attraverso la città che dorme per salire sul bus per Bijapur, verso la regione controllata dai guerriglieri naxaliti. Raj mi offre il biglietto. Insisto per dargli i soldi, ma non c'è verso. Accetta solo un piccolo pagamento simbolico. Il bus arriverà alle 9 di sera: uno di quei viaggi in cui ti domandi mille volte la ragione, e giuri a te stesso che non ne farai mai più. Giuramenti da quatto soldi. Sedici ore, la maggior parte delle quali su strade sterrate, col culo inchiodato a un sedile sfondato, mentre il bus viene ingoiato da foreste verdeggianti, tra le quali – ogni tanto – spuntano quattro capanne.

Solo altri tre viaggi si erano rivelati peggiori di questo: quello tra Senegal e Mali con mezzi di fortuna; quello notturno tra Liberia e Sierra Leone su un catorcio che si è più volte rotto in mezzo alla foresta; quello sul treno Amritsar-Varanasi - ventiquattro ore su una panca di legno, con la polizia ferroviaria che ha pure derubato il mio compagno di viaggio.

Il bus si ferma in uno spiazzo nei pressi di una tavernaccia per camionisti. Entro e passo in mezzo a nuvole di mosche, prima di trovare da sedere. C'è una regola, quando si decide di mangiare in un posto come questo: non guardarti intorno. Fissa solo il tavolo, o la tua sedia. Non sbirciare in cucina e non guardare come, dove e da chi vengono preparati i piatti. Insomma: mangia e non farti troppe domande.

Mentre raccolgo con la mano una manciata di riso e lenticchie, noto due scarafaggi che si inseguono intorno al mio piatto. Ma ho troppa fame, per lasciare tutto a loro. Pago e salto di nuovo sul bus, che continua la sua marcia verso sud. Alla fermata successiva faccio quattro chiecchiere con Amit, un giovane militare di stanza in un villaggio nella regione di Bastar, dove dà la caccia ai naxaliti. Sta tornando a casa con un permesso temporaneo. Mi prega di fermarmi da lui al suo ritorno.

Alle 9 di sera l'autobus, avvolto nell'oscurità della foresta, si ferma a Bijapur: una cittadina polverosa e insignificante vicino al confine con il Maharashtra e l'Andhra Pradesh. Sono arrivato a destinazione. Mi attende un'altra nottataccia.


pablo_trincia@yahoo.co.uk - 12/09/07 - lastampa.it

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