La Guarnieri nel lungo viaggio verso la follia

Teatro


Possiamo tranquillamente definirla angoscia. E’ la stretta che afferra lo spettatore via via che procedono i quattro atti di Lunga giornata verso la notte, dramma complesso e quasi insondabile che Eugene O’Neill scrisse nel 1940, in un periodo per lui frenetico, nel quale, leggiamo nel suo diario, progettava «di scrivere cinque lavori, poi sette, poi otto, poi nove, e ora undici! Non vivrò mai tanto da arrivarci». Ed è il dramma più scopertamente autobiografico, così legato alle radici dello scrittore da indurlo a vietarne la pubblicazione e la rappresentazione finché lui fosse stato in vita. Evidentemente non bastava attribuire le vicende della Lunga giornata all’ipotetica famiglia Tyrone per annullare le storture e le «vecchie pene»: gli O’Neill restavano graniticamente sullo sfondo, visibili anche ai distratti.

Il fosforo di un simile calco torna a brillare ogni volta che il dramma va in scena. Anche in quest’ultima edizione, Al teatro Eliseo fino al 4 novembre con la regia di Piero Maccarinelli e nella nuova, sensibilissima traduzione di Masolino d’Amico, l’opera va incontro allo spettatore con tutto il suo carico di conflitti irrisolti, con il peso di un ménage segnato da avarizia, fede religiosa, malattia fisica e mentale, alcol, morfina. La casa di campagna dei Tyrone è il luogo in cui convergono tutte le tensioni fra un padre attore mediocre, una madre fluttuante in un mondo immateriale e i due figli: uno, attore a sua volta, ma disoccupato cronico; l’altro, tisico, mosso da velleità letterarie. Tutti costoro vanno alla ricerca di una motivazione, e sono quasi convinti del valore della «crisi», dell’importanza di arrivare al cuore del notte per riuscire a scorgere il brillare di una luce. Tuttavia è il tema del fallimento ciò che emerge dallo squallore delle piccole abiezioni quotidiane, in un crocevia terribile nel quale «la bellezza del passato» non fa che esasperare la miseria del presente.

O’Neill conduce il gioco con maestria suprema, percorrendo il doppio binario dell’analista e del teatrante. Quest’ultimo si preoccupa di fornire ai propri attori solide occasioni interpretative, a ciascuno assegna il proprio momento. Il quart’atto, per esempio, sembra obbedire a questo principio, con i lunghi monologhi che, a turno, il vecchio Tyrone, sua moglie Mary, i figli Edmund e Jamie snocciolano nel tentativo di tirar via «il maledetto velo» che copre l’immagine delle cose.

Nel salotto disegnato da Gianni Carluccio e che pare ricalcato - in grigio - su un dipinto di Mondrian, Maccarinelli cerca innanzi tutto di comprimere la vicenda della Lunga notte in una durata accettabile. Elimina il personaggio della domestica, sfronda dove può, ma, pur con tutta la buona volontà, non riesce ad evitare le tre ore con intervallo. Dopo di che, quasi nascondendosi e preoccupandosi di garantire la correttezza del racconto scenico, affida la materia a un eccellente quartetto d’attori: Remo Girone, solido e plausibile nel tratteggiare la figura quasi contadinesca del capofamiglia; Luca Lazzareschi e Daniele Salvo, davvero molto bravi nella parte dei figli; Annamaria Guarnieri, nel ruolo complesso di Mary. Alla recita cui abbiamo assistito la Guarnieri era un po’ sottotono, tuttavia con i suoi fremiti, le sue nevrotiche spezzature di gesto e di voce, restava straordinaria nell’incarnare il lungo viaggio di una donna verso la follia.


OSVALDO GUERRIERI - 21/10/07 - lastampa.it

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