Quando i playboy fanno i padroni

Bucarest, Italia: quando i playboy fanno i padroni


Cosa pensano i romeni quando gli immigrati siamo noi. Nel romanzo di Andrea Bajani i racconti del Far East

DAVIDE FERRARIO

C’è una sequenza di La strada di Levi dopo cui, sempre, parte una risata tra il pubblico. Non è una risata liberatoria, piuttosto una reazione che mescola sorpresa a un retrogusto di amarezza. Avviene dopo che a Orastie, in Romania, incontriamo tre operaie di una fabbrica italiana di pelletterie. Ci raccontano com’era con Ceausescu e com’è adesso, senza sbilanciarsi. Chiedo all’improvviso: «E cosa ne pensate degli italiani?» Loro si scambiano uno sguardo silenzioso e poi non rispondono. Restano a guardare la macchina da presa con una piega sulle labbra, una smorfia che dice molto più di qualsiasi discorso.

Si polemizza spesso sulla presenza dei romeni in Italia; ma poco si racconta degli italiani andati a far fortuna laggiù né ci chiediamo che immagine noi proiettiamo nei riguardi dei romeni. Non sto parlando di sociologia o di globalizzazione, badate bene. Sto parlando di relazioni umane. Sto parlando del silenzio delle operaie di Orastie dietro il quale si intuiva pena, un filo di disgusto e una fondamentale rassegnazione, nonché una chiara componente di tipo sessuale.

Einaudi pubblica ora un libro di Andrea Bajani: si intitola Se consideri le colpe. Non è un saggio o uno studio, ma un (bellissimo) romanzo: racconta il viaggio di un giovanotto abbandonato dalla madre che va a impiantare una fabbrica a Bucarest e che muore là prematuramente, costringendo il figlio ad andare in Romania per il funerale e, soprattutto, a fare i conti con il passato della sua famiglia. Proprio perché non spiega, non analizza, non dà soluzioni ma narra una vicenda di uomini e donne, il libro di Bajani ci rivela molto di più che un’inchiesta sul mondo degli imprenditori italiani nel Far East e rappresenta un modello di letteratura necessario, ma purtroppo sempre più raro. Soffocati dall’isteria di un dibattito culturale che chiede agli scrittori (e non solo a loro, ma anche a noi cineasti) di schierarsi, di denunciare, di rappresentare qualcosa, i libri e i film servono solo per parlare di «casi» o fenomeni.

Bajani, col suo sottotono malinconico, dice sul carattere della società italiana contemporanea cose importanti perché la sua è prima di tutto una storia. E le storie, a differenza delle tesi preconfezionate, non hanno conclusioni consolatorie: se non nella condivisione profonda, venata di amarezza, della complessità dell’animo umano.

A Galati
Durante i sopralluoghi per La strada di Levi capitammo in un ristorante di Galati, verso la foce del Danubio. Accanto a noi cenavano una ragazza romena e un sessantenne che capimmo essere un imprenditore toscano con un’attività da quelle parti. L’uomo continuò a parlare per tutto il tempo di cose personali costringendoci involontariamente a trasformarci in spettatori di un melodramma. Secondo uno schema prevedibile, lei - giovane e carina - era diventata l’amante dell’imprenditore. Lui le aveva pagato un appartamento, vestiti, l’università in cambio di un affetto a intermittenza ogni volta che l’uomo tornava in Romania. Ma ora le cose erano cambiate. Della moglie, della famiglia e dell’Italia lui non ne poteva più. Voleva emigrare definitivamente e andare a vivere con lei.

La giovane non parlava praticamente mai: bastava l’espressione che aveva stampata sulla faccia. L’imprenditore capiva che la ragazza non era per nulla convinta della proposta. E allora insisteva, perorava, pietiva. «Devi capire che ho fatto un investimento su di noi», diceva con un termine rivelatore. Lei restava immobile come una sfinge. Intanto il telefonino che teneva in grembo continuava a lampeggiare silenzioso proprio in corrispondenza del suo sesso, surreale richiamo primordial-tecnologico.

Quella goffa scenetta cristallizzava una metafora forte. Lì c’erano due mondi, due culture che la Storia aveva catapultato in una scomoda intimità, governata da un fragile equilibrio in cui ciascuno si aspettava dall’altro qualcosa che l’altro non era in grado di dargli, per eccesso o per difetto.

Anche i ruoli maschile-femminile corrispondevano perfettamente. La delocalizzazione liberista in Romania ha celato, nemmeno tanto bene, una spinta da invasione barbarica alla conquista del territorio e delle donne. I primi italiani ad arrivare lì dopo la caduta di Ceausescu, ci raccontava un vecchio professore, furono proprio i playboy calati sulla riviera del Mar Nero in cerca di «signorine». Senza violenza, bastava il portafogli pieno. Non a caso furono le romene tra le prime donne dell’est a sostituire le prostitute africane sulle strade delle nostre città, prima di essere a loro volta rimpiazzate da altre disgraziate ucraine, moldave, albanesi. Sparite dai marciapiedi, le romene ce le ritroviamo in casa come colf e badanti: perché quelli sono i ruoli che inconsapevolmente assegniamo loro, percependo che possiamo «comprarle» in conseguenza del nostro potere economico.

Italiani di ieri e di oggi
C’è una differenza antropologica sostanziale tra il vecchio «pappagallo» italiano che, con le calze di nylon in valigia, andava oltrecortina a far conquiste femminili negli anni Settanta e questa nuova specie di latin lover. Il pappagallo era una figura dell’Italia povera e cialtrona, un personaggio alla Alberto Sordi, insieme simpatico e meschino. Gli italiani moderni arrivano in Romania con la forza travolgente di un modello economico che colonizza i villaggi nello stesso momento in cui - oggettivamente - li salva dalla miseria. Il pappagallo è diventato un padrone, spesso un padrone che non ha bisogno di chiedere, perché la dinamica di sudditanza è implicita, quasi naturale; e si manifesta in modo chiarissimo nella relazione umana base, uomo-donna.

Ma, sotto l’epidermide della soddisfazione sessuale, cosa cercano davvero i maschi italiani in Romania? Parlando con molte coppie miste per una sezione del film che alla fine non ho montato, veniva fuori una specie di sogno regressivo. Sì, certo, la fresca età dell’amante romena era un elemento. Ma l’aspetto decisivo era un altro: un’arrendevolezza femminile che arrivava alla sottomissione. Un concetto espresso brutalmente ma francamente da un camionista: «Le donne, qui, non rompono i coglioni».

Nel momento in cui abbiamo esportato la modernità economico-ideologica, ci siamo ben guardati dal portarci dietro anche l’evoluzione sociale che con quella era maturata. Anzi, esattamente il contrario. Ecco perché i romeni, di noi, hanno un’immagine sostanzialmente patetica. Ci subiscono, nel migliore dei casi ci rispettano: ma non ci ammirano. C’è una saggezza antica, interiore che il comunismo ha involontariamente conservato nei popoli dell’ex-impero sovietico. L’ho avvertita ripetutamente durante le riprese di La strada di Levi. Questa saggezza riconosce la forza dei potenti, ma non se ne lascia abbindolare. Sa che dietro la frenesia produttivistica si nasconde l’angoscia del futuro.

Sul tetto della fabbrica di Orastie campeggia un’insegna che starebbe bene sopra l’azienda del romanzo di Bajani. Lunga e stretta, quasi in cinemascope, è il trompe l’oeil di un cielo azzurro striato di nuvole dentro il quale svolazzano, incongrue, due borsette. In mezzo, il nome della ditta: «Nuovi Orizzonti». Mi sembra che in quest’utopia da hard discount ci stia tutto il pathos dell’Italia moderna.


28/10/07 - lastampa.it

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