Un cuore ad aria compressa

Primo impianto in Italia: così il paziente potrà aspettare l’organo di un donatore


I simboli ci sono tutti e sono rosei: nel giorno del suo 54° compleanno e 40 anni dopo il primo trapianto (quello di un chirurgo sudafricano all’epoca sconosciuto, Christian Barnard), un signore si è svegliato con il primo cuore artificiale totale impiantato in Italia.

«Quando è arrivato da noi era in condizioni critiche e non avrebbe sopportato un’operazione da donatore. Allora abbiamo deciso di ricorrere a questo tipo di cuore, che permetterà al paziente di ristabilirsi in vista di un nuovo impianto, stavolta di uno “naturale”». A spiegare il record è stato Gino Gerosa, che ha guidato un team dell’ospedale di Padova: 13 ore di intervento per salvare un individuo allo stremo, che - spiegano i bollettini - soffriva di «gravi disfunzioni ventricolari e che neppure due interventi in un altro ospedale erano riusciti a ridurre».

Adesso la sua seconda esistenza è legata a un meccanismo sintetico made in Usa di 160 grammi che si chiama «CardioWest Tah» (Total artificial heart). Ultima generazione di una serie di organi artificiali - il primo a passare alla storia per efficienza fu Jarvik-7 nell’82, che fece sopravvivere Barney Clark per 112 giorni - è un esempio di tecnologia collaudata, che negli Stati Uniti e nel resto del mondo vanta 670 impianti e, secondo la ricerca pubblicata sul «New England Journal of Medicine», il più alto tasso di successi: un rassicurante 79%.

«CardioWest» è infatti una macchina temporanea, ma lavora su tempi lunghi. Anche un paio d’anni, se necessario. «La tecnica che abbiamo usato e il dispositivo - sottolinea Gerosa - permettono al paziente non solo di sopravvivere, ma anche una qualità di vita ottima. Potrà ristabilirsi al meglio in previsione dell’operazione definitiva».
E a 48 ore dall’intervento (la notizia è stata diffusa ieri) la ripresa appare ottima. La macchina occupa il posto del vecchio cuore stremato, che è stato completamente rimosso.

Descritta dai progettisti come «una meraviglia tecnica», è in grado di pompare fino a nove litri e mezzo di sangue al minuto e al momento ha un unico difetto: costa 80 mila euro («ma su questo aspetto non abbiamo fatto e non faremo mai riflessioni di tipo ragionieristico», ha fatto sapere l’Asl). Come l’omologo biologico, è formata da due ventricoli. Ciascuno è costituito da un corpo semirigido di poliuretano, suddiviso all’interno da una membrana flessibile che separa la cosiddetta «camera ematica», destinata ad accogliere il sangue del paziente, da quella pneumatica. I diaframmi permettono il riempimento del ventricolo artificiale e di eiettare il sangue, spinti dall’aria proveniente da una «console» esterna (ed è l’inevitabile differenza rispetto al meccanismo naturale).

Prima di ogni «ricarica» ci si può muovere liberamente per sei ore, imitando il più possibile una vita normale. La futura e terza esistenza dell’anonimo paziente è legata all’organo adatto, ben sapendo che in Italia le donazioni restano ancora drammaticamente insufficienti (la metà del necessario). Alla macchina non si può chiedere di più.

Quanto ai simboli, se ne affaccia un terzo: «Ventidue anni fa proprio a Padova fu effettuato dal gruppo di Vincenzo Gallucci l’impianto di un cuore umano da donatore per la prima volta in Italia. Siamo sempre all’avanguardia».


GABRIELE BECCARIA - 11/12/07 - lastampa.it

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