Mirco, dagli inferi alla testimonianza

Evangelizzato nel 2002 in una Missione di strada, ora è sua volta un evangelizzatore. La testimonianza di un giovane della Comunità Nuovi Orizzonti a circa mille giovani dell’Azione Cattolica incontrati a Vasto.

Una testimonianza fortissima quella di Mirco Buldrini, giovane della Comunità Nuovi Orizzonti. Evangelizzato nel 2002 in una missione di strada, ora è sua volta un evangelizzatore. Mirco ha raccontato la sua storia a circa mille giovani dell’Azione Cattolica incontrati a Vasto.

Vi dico subito che sono molto onorato e ho provato anche tanta emozione mentre ero seduto qui di fianco, perché mi commuove proprio che Dio mi dia questa possibilità di essere qui fra tanta grazia e di poter parlare a tante persone che hanno scelto di vivere portando il messaggio di Cristo, il messaggio di salvezza e di risurrezione.

Questo mi commuove perché ho personalmente sperimentato la bellezza, la grandezza e la gioia di questo messaggio.

Io sono nato in una famiglia con parecchi problemi. Il ricordo più nitido che ho da bambino è il chiudermi in stanza al rientro di mio padre la sera e il silenzio che cercavo di fare anche col il respiro per non fargli sentire che c’ero. Mio padre aveva dei grossi problemi di alcolismo, ma soprattutto aveva dei grossi problemi di violenza. È stato in collegio anche lui molti anni, dai tre ai diciotto anni ha vissuto un abbandono enorme, quindi è nato e cresciuto in una situazione di rabbia e di abbandono che automaticamente ha sfogato poi sulla famiglia che si andava creando. Ricordo in quegli anni le molte visite fatte in ospedale a mia madre …, ricordo mia madre seduta e fasciata perché mio padre le aveva sfondato le pleure dei polmoni, ricordo tanti momenti di incubo vissuti in casa dove cambiavamo mobilia per lo meno ogni quattro o cinque mesi, perché mio padre aveva degli attacchi di ferocia e quindi il ricordo più nitido che ho, in cui mi sono rifugiato più spesso, è quello del silenzio. Dalla nascita fino ai sei anni ero già un bambino che cercava di non esistere. Nel rapporto col mondo esterno avevo momenti di silenzio e momenti dove giocoforza esistevo e quindi dovevo sfogare tutto questo silenzio. E così mi sono trovato a sei anni ad essere già un bambino con grandi problemi di carattere: a scuola facevo spesso a botte e di conseguenza venivo messo in castigo, perché probabilmente le mie maestre d’asilo e delle elementari non avevano proprio altri mezzi per contenermi, non trovando poi neanche una risposta concreta nella mia famiglia per sapere da dove nascevano questi problemi e come risolverli. Anche mia madre inevitabilmente aveva assunto un atteggiamento di silenzio e di adattamento a questa grande violenza di mio padre.

Io abitavo in una casa in periferia di Trento, che però non si può chiamare periferia, per chi conosce le periferie delle grandi città. Trento è una città abbastanza ordinata e quindi anche le case di periferia sono di quattro o cinque piani, abitate da una decina di famiglie, tutto precisino; quindi io potevo permettermi di stare nel piazzale a giocare a pallone Ricordo bene un pomeriggio, avevo appena compiuto sei anni, non avevo nemmeno cominciato le elementari (compio gli anni a luglio e la scuola inizia a settembre): arriva sul piazzale di casa mia nonna, tutta sudata e cerca mia madre; mia madre poi mi prende in fretta e furia e mi porta dai suoi genitori, dagli altri nonni, perché mio padre aveva avuto un incidente in motocicletta … e rimarrà sulla sedia a rotelle da quel momento fino ad oggi.

Nell’anno successivo ho visto mia madre una, due volte e ho saputo che mio padre era sulla sedia a rotelle dal telegiornale. Paradossalmente quello è stato l’anno migliore della mia infanzia, perché i miei nonni erano persone cristiane, un po’ rigide forse, ma non mi trasmettevano la paura. Non bastò certo quell’anno a guarire un bambino che comunque aveva vissuto cinque anni di silenzio e di non esistenza!

Iniziai le elementari e l’anno dopo mio padre tornò dall’ospedale, ci trasferimmo in una villetta a schiera che in trentino mettono a disposizione per le persone disagiate con problemi fisici. Mio padre era effettivamente una persona un po’ più calma, perché aveva iniziato a fare uso di morfina e psicofarmaci che gli avevano prescritto i medici dopo l’incidente. Mia madre iniziò ad essere sempre meno in casa, perché probabilmente anche lei aveva bisogno di scappare dalla figura di mio padre, che ora non era più fisicamente pericoloso. Quindi io iniziai ad essere sempre più da solo con mio padre.

Negli anni successivi mia madre iniziò una relazione con un altro uomo che già conoscevo, perché nel frattempo mio padre, oltre agli psicofarmaci e alla morfina, iniziò a far uso di eroina e cocaina. La mia casa si trasformò praticamente nella piazza di Trento, divenne il luogo primario dello spaccio, del rifugio dei vari delinquenti ricercati. La mia normalità divenne questa e queste le figure di riferimento.

Mia madre ebbe la bellissima idea di mettersi con uno di questi nuovi acquisti che giravano per casa e mi portò via da mio padre e andammo a vivere in Val di Fassa. In quell’anno iniziavo a leggere, iniziavo a essere un bambino un po’ più grande che cominciava a capire delle cose; infatti, da lì a poco scoprii che mia madre si era messa con il mostro di Sardonia (un paese vicino a Trento), accusato dell’omicidio della prima moglie. E in me iniziarono a crescere delle paure aberranti: ricordo che da allora in poi il mio silenzio era carico della paura che quest’uomo potesse uccidere mia madre, che quest’uomo potesse uccidere me. In casa non c’erano dei begli individui e per di più ero in una realtà ancora più piccola di quella che è Trento, ero in un paese di duecento abitanti dove per un anno ogni giorno sui giornali della zona c’era quest’uomo, la mia famiglia e tutte queste storie nei giornali, soprattutto il tema di questo corpo della donna uccisa che non si ritrovava ...

Di conseguenza mi sono trovato intorno agli otto-nove anni, ad essere un bambino già stanco; non riuscivo a capire cosa potesse essere la vita, pensavo potesse essere solo una grande tragedia e una grande disperazione. Tutta questa paura non riuscivo a comunicarla a nessuno, ho provato qualche volta a comunicarla a mia madre. Però, dato che il suo uomo aveva un atteggiamento diverso da quello di mio padre, quanto meno non era una persona violenta, mia madre aveva pensato di trovare in lui quel sogno e quella ricostruzione familiare che aveva fallito negli anni precedenti causandole tanta sofferenza. Quindi non riuscì probabilmente ad accogliere questo bambino che purtroppo non gridava perché aveva imparato il silenzio. Insomma, arrestarono quest’uomo per omicidio, dopo vari processi lo portarono in carcere e passai gli anni successivi a fare un po’ avanti e indietro per tutti i carceri d’Italia con mia madre.

Perquisizioni, colloqui, guardie ubriache; insomma situazioni brutte e di degrado. In me si insinuava un seme di diversità in relazione a tutto il mondo e a tutti i coetanei; mi sentivo diverso, non riuscivo a partecipare a giochi di gruppo, ricordo che volevo iscrivermi per giocare a calcio ma non ero proprio capace di socializzare, facevo fatica, mi sentivo sempre a disagio, mi sentivo sempre il diverso. Inoltre, si sa, i bambini hanno tanto di bello, ma assimilano anche i pregiudizi che sentono in casa; così i miei coetanei assimilavano i giudizi dei loro genitori circa la mia storia, la mia famiglia. Quindi avevo anche dall’esterno un continuo riscontro di rifiuto e di solitudine. Ricordo che fra gli otto e gli undici anni, ero convinto di giocare in una squadra di calcio, ma in realtà mi chiudevo in camera il pomeriggio dopo scuola e mi facevo le liste con i nomi, mi facevo la partite, mi costruivo il campo da calcio sulla moquette, insomma mi facevo tutta una vita sociale, ma me la facevo solo dentro di me. Mi costruivo delle amicizie dentro di me. In quegli anni non vedevo nemmeno più mio padre, perché mia madre mi aveva portato via da lui; senonché diventando un pochino più grande e avendo un po’ più capacità di movimento, iniziai ogni tanto a prendere la corriera, a scappare da mia madre, a scappare da scuola, andandomene magari a ritrovare mio padre dai nonni.

In quegli anni conobbi la droga. Avevo dieci anni, ricordo che una sera - ero con mio padre - avevo un fortissimo mal di denti e mio padre ebbe l’invenzione di darmi una mezza pastiglia di Roipnol, un sonnifero. Mi piacque, perché per un momento, subito dopo il sonno, ritrovai un po' di serenità; avevo dentro un silenzio che non avevo praticamente mai assaporato, avevo pace, non avevo più paura e non avevo paura di mio padre, c’era solo questo silenzio dentro che mi conquistò.

Da lì a poco, sempre con mio padre, iniziai a fare il primo uso di spinelli e mi piacque, perché mi diede la sensazione di essere più capace di socializzare, di essere più in grado di stare anche nel mio silenzio, perché nemmeno nel mio silenzio riuscivo più a stare: a dieci anni avevo dei disturbi allucinanti: ogni passo che facevo, sentivo che quello mi giudicava, che quello mi guardava, che quello sentiva cosa pensavo. Insomma, ero un bambino, ma un bambino appesantito come un vecchio che ha fatto una brutta vita. Sentivo di avere non dieci anni, ma settanta; ogni passo e ogni sguardo mi pesavano proprio tanto.

Insomma da lì ad arrivare all’eroina il passo non è stato proprio velocissimo, sono passati altri due o tre anni. Però mi ritrovavo a quindici anni a fare la prima esperienza di eroina con l’uomo di mia madre, che nel frattempo aveva finito il carcere.

Allora, nel momento in cui ho incontrato l’eroina, ero convinto di aver trovato la soluzione a tutto il male che avevo dentro, perché con quest’uomo avevo una grande complicità ed era una complicità che non mi faceva sentire più la paura che quest’uomo mi potesse uccidere o che potesse fare del male a mia madre, mi sentivo parte di lui, insieme a lui, quindi io mi ero tanto alleggerito.

Iniziavo ad avere delle amicizie, a sentirmi importante per la gente, perché avendo l’eroina, la marijuana e la cocaina in casa, mi potevo permettere il lusso di essere cercato e non più giudicato. La gente mi telefonava a casa, veniva a suonare alla porta, mi chiedeva di uscire insieme e io ero proprio convinto di aver trovato la chiave di volta.

Sono andato avanti così qualche anno. Nel frattempo ho iniziato a far uso di eroina anche con mio padre, perché già fumavo marijuana con lui. Dal momento in cui ho iniziato ad usare le polveri insieme a quest’altro uomo, mi sono presentato da mio padre come un adulto che poteva permettersi di fare certe cose insieme a lui, e le cose erano queste. Quindi ho iniziato a fare dei viaggi con mio padre: andavamo nelle Filippine, portavamo indietro l’eroina, l’hashish, l’erba, andavamo in Portogallo, in Spagna, in Paesi Bassi, ho fatto tutta una serie di cose con mio padre che non avevo mai fatto e quindi ero proprio convinto di avere trovato la chiave di volta, mi sentivo forte. Soprattutto non sentivo più certe voci interiori, perché negli anni precedenti avevo un continuo tormento fatto di malesseri, di dolori, di senso di diversità che mi torturava. Ad un certo punto mio padre decise che era l’ora di smettere di fare uso di eroina; aveva intenzione di cambiare vita e quindi mi buttò fuori di casa.

Nel frattempo anche mia madre, che aveva accettato la situazione col nuovo uomo, mi buttò fuori di casa, si tenne lui e buttò fuori me e così mi ritrovai per strada.

Non era facile trovare l’eroina, perché non ce l’avevo più in casa. Non potevo più lavorare per strada, perché se lavori e poi vai a casa e ti fai una doccia è una cosa, se lavori e poi vai su una panchina e dormi in un parco, l’energia viene a mancare. Allora non andai più a lavorare e iniziai a fare reati: furti, qualche rapina, spacciavo sempre di più perché mi servivano sempre più soldi. Iniziai a farmi in quantità sempre più grandi perché, mentre prima un po’ per il lavoro, un po’ per la scuola, un po’ per il fatto che l’uomo di mia madre mi aveva abituato la mattina ad arrivare col vassoio con la dose pronta, avevo uno standard diverso, ora mi trovavo ad avere uno standard aumentato, quindi mi serviva sempre più roba, sempre più coca, sempre più espedienti che mi portassero soldi. Fatto sta che hanno iniziato ad arrestarmi. Le prime volte ti arrestano e ti rilasciano nel giro di qualche giorno, perché sei ancora pulito, aspetti ancora che ti facciano il processo. Dopo un paio di anni avevo già quattro anni da scontare: vennero a prendermi e mi portarono in carcere.

Fortunatamente, mentre ero per strada, avevo conosciuto un’associazione di Trento che seguiva i ragazzi di strada: cercavano di convincerli a fare qualcosa di diverso, a entrare in comunità, a provare a fare dei colloqui, a ricevere un’assistenza sanitaria. Io intanto avevo anche iniziato a fare un forte uso di psicofarmaci, quindi avevo dei vuoti di memoria anche per giorni interi. Mi svegliavo magari a dicembre e l’ultimo giorno che mi ricordavo era di settembre, quindi nel frattempo avevo combinato tutta una serie di cose che manco ricordavo di aver fatto e che poi mi ritrovavo puntualmente tutte insieme. Così decisi di entrare per la prima volta in comunità.

Avevo già avuto un’esperienza di pochissimi mesi da don Pierino Gelmini, però ero andato via subito perché mi andava bene la vita che facevo, quindi non avevo dato senso a questo ingresso.

Entrai a San Patrignano e vi rimasi due anni. Il primo anno fu anche piacevole, perché mi permisi di vivere tutta quella parte adolescenziale di me che avevo perso. Allora facevo veramente parte della squadra di calcio interna, mi piaceva lavorare, così mi proposero un lavoro di restauro di mobili che mi attirava. La mattina mi sentivo di alzarmi e quasi di andare a scuola e poi il pomeriggio andavo a fare sport. Stavo proprio bene, sentivo che mi stavo riprendendo quella parte di me che mi era mancata.

Dopo un anno, si iniziano ad avere le prime responsabilità, quindi devi iniziare ad uscire dal silenzio, dal tuo mondo.

Io avevo vent’anni e mi ritrovavo ad essere come un bambino di otto anni; ogni volta che sentivo una persona con un carattere forte, iniziavo a sudare, dovevo cambiare quattro, cinque magliette al giorno ed ero in continuo disagio. Così ad un certo punto pensai: "Ma sai cosa faccio? Io quasi quasi un’altra pera me la faccio, almeno queste sofferenze non le vivo".

Non mi sentivo assolutamente in grado di sostenere dei rapporti, delle relazioni, di fare anche delle cose un po’ più serie che carteggiare un pezzo di legno. Seguire un ragazzo e stare attento che non combinasse guai, mi andava in tilt, mi sentivo a disagio, non mi sentivo proprio in grado e all’altezza.

Di conseguenza scappai da San Patrignano, corsi per le campagne con l’ossessione che mi dovevo "fare", perché avevo bisogno di fermare un vortice che era ritornato dentro di me, un vortice di discorsi interiori e di paranoie. Quindi me ne andai a Bologna e mi "feci", poi tornai a Trento e telefonai a mia madre. Ricordo che le dissi: "Guarda, io sono andato via dalla comunità" e lei mi rispose: "Va bene, se tu vuoi star per strada, stai per strada; a un certo punto sono anche affari tuoi". Penso che l’abbia detto con tutta la sofferenza che può provare una madre, perché nel frattempo aveva lasciato il suo uomo e aveva iniziato a capire che c’erano stati degli sbagli, delle mancanze gravi anche da parte sua. Così aveva iniziato un suo percorso di crescita ma non era ancora pronta a farsi carico anche del mio, perché anche lei doveva ricominciare da capo.

Allora andai da una persona che mi aveva già aiutato ad entrare a San Patrignano e le dissi: "Guarda, io sono uscito dalla comunità …". Non ammisi che mi ero fatto perché volevo salvare la mia immagine ed ero convinto di poterla mascherare, però era evidente. Si chiamava Francesca. Le dissi: "Francesca, guarda, io ho due possibilità: o continuo a farmi, oppure devo avere qualcosa di più dentro di me, perché sennò non reggo proprio la mia persona, non riesco a convivere con me stesso".

Ricordo che a volte mi fermavo e guardavo dentro di me: "Oh, ma quanti siete là sotto, mi state tormentando, non è proprio possibile!". E lei mi propose di entrare al CEIS, che è una comunità dove si fa un percorso basato sulla persona, il progetto-uomo, basato sulla ricerca del proprio passato, dei propri traumi, del perdono e della guarigione. Intrapresi anche questo cammino dicendomi: "Adesso vado a guardarmi dentro, guarisco quello che c’è da guarire e non voglio sapere più niente di mia madre e di mio padre, perché mi hanno presentato una vita oscena e che tutt’oggi non ritrovo".

Ho cominciato questo percorso anche con una certa grinta perché comunque dentro ho sempre avuto la piccola percezione (piccola, in tanti momenti trasparente, in alcuni momenti anche un po’ più forte) che poteva esserci qualcosa di meglio anche per me che ero uno sfortunato, perché ero in silenzio da quando ero nato; sfortunato perché vedevo tanta gente più sicura di me, intraprendente, (c’era chi aveva già figli, chi apriva una ditta), mentre io, già a vent’anni, ero perso per strada.

Quindi ho cominciato con questa convinzione, ho fatto tutto il percorso e ho fatto bene - mi dico ancora oggi - perché questo percorso preparava il terreno per quello che è avvenuto successivamente. Ho cercato anche di perdonare tutta una serie di persone che mi hanno ferito, ma mi sono costruito su una presunzione assurda, perché il lavoro sull’uomo ti abitua a guarire e quindi a sentirti sempre più capace. Inoltre avevo un bisogno enorme di riscattarmi, di superare tutta una serie di umiliazioni mentali vissute che avevo dentro. Di conseguenza faccio tutto il percorso, passo alla fase di reinserimento nella società e mi metto in una situazione affettiva non delle più facili, perché mi metto con una donna molto più anziana di me. Evidentemente avevo un bisogno infinito di recuperare la figura materna di cui ero privo.

Dopo un po’ di tempo, ho iniziato a lavorare con i malati terminali di Aids, perché avevo intuito che donandoti a chi ha bisogno si guarisce.

Non so con quanta accortezza mi avevano proposto di fare l’operatore in una casa di malati terminali. Ho retto più di un anno, mi ero trovato casa fuori, guadagnavo bene, facevo qualche lavoretto di restauro o di imbiancatura il sabato e la domenica, iniziavo a mettere via dei soldi, mi ero preso un bel cane, avevo una casetta tutta arredata e sistemata bene … Ho fatto questa esperienza con i ragazzi della casa Lamar, un’esperienza bellissima ma atroce, dove mi sono trovato a confronto con tante morti, finché il peso di una relazione che non andava bene ha gravato troppo …

Infatti, in questa comunità c’era un uomo che aveva l’età di mio padre e un figlio della mia età e con lui si era creato un legame simbiotico. Io mi sentivo importantissimo, perché lui da quando mi sono messo a seguirlo aveva fatto dei passi in avanti circa la malattia. Prima non riusciva neanche a vestirsi, era sempre molto arrabbiato, invece era diventato una persona più docile, iniziava a scegliere il colore della maglietta, a tirarsela fuori dall’armadio … Ho visto dei progressi … Quando è morto io non sono riuscito a sopportare il dolore. Mi è tornata una sofferenza incredibile, avevo un desiderio di morte infinito. Ricordo che dopo il funerale sono andato a lavorare, avevo il turno di notte, la mattina mi sono alzato e sono andato da un vecchio spacciatore, ho preso cinque grammi di cocaina (che non sono pochi per uno che non si droga da anni), a casa mi sono chiuso in bagno e ho iniziato a ‘farmi’ senza sosta, finita quella ne sono andato a prendere dell’altra, ancora, ancora, ancora, … Mi facevo e vomitavo, mi facevo e vomitavo sperando di vomitare fuori tutto il male che avevo dentro e di cui non riuscivo a liberarmi.

Avevo venticinque anni ed ero da capo un’altra volta, con un desiderio di morire incredibile. Da lì a ritornare agli psicofarmaci e all’eroina è stato un salto di pochi giorni; ho lasciato la casa e mi sono trasferito alla cartiera di Verona, un piccolo Bronx, il girone dell’inferno … Una ex cartiera abbandonata, una città nella città, nascosta da alcune mura, proprio dietro il Leon d’Oro, albergo di lusso alle porte del centro storico di Verona. Oggi mi viene quasi da piangere a pensare alla cartiera di Verona, perché è un girone dell’inferno, dove c’è una perdizione incredibile, è un’ex cartiera fatta di solo cemento, in cui esistono tutte le realtà di stranieri, di tossicodipendenti, di prostituzione: sporcizia e siringhe accumulate in ogni angolo. Con quasi ventimila euro in tasca e lo zainetto con quattro panni, mi sono trasferito là con l’idea fissa di consumarmi insieme ai soldi che avevo messo via, di spendermi piano piano e di morire. Quindi penso di aver passato tutto il mese senza mai mangiare, solo ed esclusivamente insieme a questi quattro marocchini a farmi, a farmi, a farmi. Ho avuto vari collassi, l’ambulanza mi ha ripreso più volte e mi ha portato fuori. Ma appena mi svegliavo, rientravo sempre più arrabbiato anche con questi che venivano a salvarmi: "Lasciatemi, io mica sono qui perché voglio essere salvato, sono qui perché ci voglio morire!".

Non sentivo più nemmeno la disperazione, ero sempre più convinto che l’unica vera amica della vita fosse la morte, io avevo questa convinzione sicura: attraverso la morte avrei trovato la pace. Quindi ho continuato un po’ di tempo così, finché una sera ho incontrato Tommaso, che è il responsabile del Centro Arcobaleno, il centro di accoglienza di Nuovi Orizzonti a Roma. Erano là circa 100 missionari con i giovani della Comunità, in una delle Missioni di strada ed evangelizzazione che si fanno ogni anno. Tommaso, incontrandomi, mi disse: "Ma tu lo conosci Gesù? Sai che c’è una via di salvezza che si chiama Gesù?".

Quella percezione di cui parlavo prima, in cui c’era sempre un po’ di speranza, era diventata ormai più che trasparente.

Vorrei potervi trasmettere quello che vivevo, la convinzione che avevo allora: aspettavo la morte con un’idea di sollievo e di pace indescrivibile; oggi, con quello che ho sperimentato, non riesco più a descriverlo come l’ho potuto descrivere a Tommaso quella sera. Lui mi ha parlato di Gesù e - non so come mai - tutto in un attimo in quella sera mi si è accesa una luce. È come se in un motore spento da tanti anni, spento e demolito, qualcuno avesse messo una chiave e avesse dato il primo giro che accende il quadro. Mi lasciò l’indirizzo e già quella sera mi disse: "Guarda, noi stiamo facendo uno spettacolo qui a Verona, vieni …". Io dovevo "farmi", risposi: "Sì, va bene, poi vengo, domani vengo di sicuro (ero convinto), domani sera sono da voi, entro in questa comunità e mi faccio salvare da questo Gesù che mi hai detto". Perché in quel momento quella chiave mi disse: "Tu puoi essere salvato, tu puoi avere una vita diversa". Avevo questo tarlo in testa.

Il giorno dopo ero convinto di andarci, se non che quella mattina mi arrestarono perché ero in crisi di astinenza, entrai in un bar alle quattro del mattino, il primo bar che apriva, cercai di entrare nello stanzino dove tenevano le borsette e otto muratori mi bloccarono sul tavolino, poi mi arrestarono.

La chiave era dentro … In carcere continuavo a ricevere grandi dosi di psicofarmaci, perché l’astinenza da eroina ti porta un certo malessere, l’astinenza da psicofarmaci ti fa crepare perché ti porta a crisi epilettiche e convulsioni. Decisi di non prendere il metadone che sostituiva l’eroina, però dovevo per forza di cose prendere gli psicofarmaci in carcere, sennò sarei crepato di crisi epilettica. Andai anche in biblioteca e presi la Bibbia, perché questo Gesù mi aveva incuriosito. La chiave era dentro, e iniziai un pochino a leggere per quello che la testa mi permetteva, per quello che la mia persona mi permetteva. Iniziai a leggere la Bibbia. Nel frattempo questa Francesca che è stata il mio angelo custode da sempre, perché ogni volta mi è venuta a riacchiappare o in carcere o in strada, mi disse: "Mirco, rientra al CEIS, ti vogliono tutti bene, hai fatto questa esperienza coi malati terminali, cerca di ripartire. Non è passato nemmeno un anno da quando hai ricominciato a farti" e io le dissi: "Guarda, Francesca, il lavoro l’ho imparato a San Patrignano, ho fatto tutto un percorso di conoscenza di sé al CEIS, io cosa posso fare di più?".

Ci avevo messo tutto quello che ci potevo mettere e dissi: "Io voglio entrare lì, Francesca, se tu mi fai entrare lì, se mi fai fare l’esperienza di Dio nella mia vita, io ci posso riprovare, sennò resto in carcere e quando esco dal carcere quello che succede, succede, mi tornerò a fare… è lo stesso".

Fatto sta che Francesca mi fece concedere gli arresti domiciliari in una casa protetta con la possibilità di lavoro, perché comunque la chiave era giàdentro di me, ma insieme a tutta una serie di bei problemi da smaltire, quindi dissi di sì.

Andai in questo appartamento. Dato che alle sei venivano i carabinieri, io alle sei e un quarto, quando se ne andavano, andavo in farmacia, compravo i flaconi di psicofarmaci e mi chiudevo in questa casa. Una, due volte mi è andata bene, la terza volta sono proprio scappato e sono tornato in cartiera per farmi.

Il lunedì ritorno a Trento, convinto di andare in questo appartamento, mi fermano i carabinieri, mi portano in Questura e il maresciallo mi dice: "Buldrini, qui non c’è più niente da fare, tu devi scontare cinque anni, ora te li fai tutti in carcere e buonanotte al secchio". Intanto Francesca stava parlando col giudice e diceva: "Questo ragazzo ha qualcosa di buono dentro, può tirare fuori qualcosa di meglio, per piacere, gli dia quest’ultima possibilità!".

Il giudice telefonò ai carabinieri e disse: "Buldrini, ti do ventiquattr’ore per entrare in comunità, sennò io firmo l’istanza e non ti saranno concessi più né arresti domiciliari né nient’altro". Francesca telefonò a due o tre comunità, spiegando quale era la mia situazione, però non trovò posto per me. Io ero un disgraziato di venticinque anni di cui quindici passati in mezzo alla droga, avevo anni di carcere da scontare e quindi non potevo neanche pagare, avevo fatto tutti i programmi di questo mondo ed ero ricaduto di continuo, nei SER.T mi ritenevano irrecuperabile e dicevano: "Morirà di overdose, prenderà il metadone a vita".


Così Francesca chiamò Angela, che allora era al centro di Nuovi Orizzonti a Montevarchi e le disse: "Angela, questo ragazzo ha ventiquattr’ore di tempo per entrare in comunità, altrimenti deve scontare cinque anni di carcere". Angela disse: "Cosa aspettate? Partite! Il posto lo troviamo". Mi preparai le borse e la mattina dopo alle cinque partimmo ed entrai a Nuovi Orizzonti.

Allora la chiave era dentro, però, ogni volta che ero lucido, mi ritrovavo con dei problemi immensi. Avevo la speranza di poter fare qualcosa, però non ero profondamente convinto di potercela fare. Ci provo, inizio. Bene o male, la vita di comunità la conoscevo, quindi era normale andare nel settore di lavoro alle sette la mattina, nessuno mi doveva dire che non dovevo mancare di rispetto all’operatore perché ero stato operatore anch’io, la comunità l’avevo fatta e ormai era regalata. Ma un giorno, stavamo facendo una riunione in cappellina, Loredana mi disse: "Mirco, se tu farai l’esperienza di Dio nella tua vita, tu non ti sentirai mai solo". Io vi ho raccontato cosa voleva dire per me essere solo: solo voleva dire sgabuzzino, chiuso nella mia stanza perché mio padre non sentisse nemmeno che respiravo, voleva dire anni passati schiaffato sugli articoli dei giornali, voleva dire chiuso nella stanza credendo di avere degli amici con cui giocare a calcio invece ero solo, voleva dire la cartiera di Verona da solo a spegnermi e morire, voleva dire non avere mai avuto un rapporto coi genitori, voleva dire non aver mai avuto un amico … E ancora a Loredana non l’avevo raccontata la mia vera storia ...

Quindi mi dissi: "Ok, un’altra chiave di volta, non è più l’eroina ma una cosa diversa". Era evidente che poteva essere la mia strada, era evidente che poteva essere la via della mia guarigione. Amato dall’Alto, io, lo sfortunato, quello che è stato in silenzio una vita, quello che si è fatto una marea di pere, quello che ha imparato a fare i peggiori disastri, quello che è stato sui giornali, quello che non si è mai sentito meritevole di una goccia, di una briciolina, di una carezza, di niente!, io profondamente amato da Dio, da Dio, non dal primo venuto, da Dio!

E queste parole mi sono bastate per mettermi in cammino. Il cammino non è stato facile e non è facile neanche oggi. Tutt’oggi trovo tutte le mie difficoltà, però oggi io con tutte le mie difficoltà sono amato da Dio e di conseguenza è tutto più facile, perché i pesi non li porto più da solo, io i pesi li porto con tanti scalognati come me, che poi sono tutto il mondo. Allora io oggi non ho più quella sensazione di diversità che mi ha messo in un angolo. Non so dirvi come mai non ce l’ho più, perché non ho fatto diecimila sedute terapeutiche e non sono andato dallo psichiatra, non sono andato dallo psicologo; so solo che oggi in Cristo non ce l’ho più; so che oggi sono qui davanti a tanta grazia che mi emoziona, mi commuove, mi imbarazza, ma come succede a tutti gli esseri umani di questa terra.

Magia di tutte le magie, io che con i miei genitori non ci volevo più parlare, io che ai miei genitori avrei messo una bomba in macchina, in casa, li avrei picchiati, avrei fatto loro qualsiasi cosa, un giorno ho sentito che per conquistare pienamente questo amore di Cristo e questo sentirmi amato dall’Alto, dovevo perdonare soprattutto la figura paterna, mio padre. Quindi chiesi a fratel Francesco, che diventerà uno dei nostri sacerdoti a Nuovi Orizzonti: "Francesco, io ho bisogno di pregare, di perdonare mio padre, di riconquistarmi questa figura paterna ferita che ho dentro, perché sento che è proprio il tassello che mi manca".

Andai in cappellina e pregai con lui, chiesi al Signore di prendersi cura di questo mio dolore, di liberarmi dentro, anche di addolcire tutto quello che mio padre mi aveva fatto, perché anche mio padre era in fondo uno scalognato: si era fatto diciotto anni di collegio. E io da quel giorno ho iniziato a sentire mio padre al telefono. Mio padre è una persona egoista, rischia di non chiamarmi per mesi perché lui ha la sua vita, poi da quando è sulla sedia a rotelle pensa che tutto gli sia dovuto, che debba essere al centro del mondo. Oggi quando lui non mi chiama per due, tre giorni, quattro, una settimana, io prendo il telefono e lo chiamo volentieri e dico: "Ciao, papà, come stai? Cosa stai facendo? Stai mangiando? Cosa stai mangiando?". Con mia madre faccio lo stesso. Mi sono affidato a Dio perché mi aiuti ad accogliere questa figura materna che mi aveva distrutto venti anni di vita. Però, poverina, è una sfortunata pure lei perché ha avuto un sacco di problemi, pure lei deve fare i conti con dei genitori che le hanno inculcato determinate cose piuttosto che altre ...

Quindi oggi a trent’anni voglio bene a mia madre, voglio bene a mio padre, voglio bene davvero e ho riallacciato i rapporti con loro.

L’ultima cosa più bella che mi sia capitata nella vita: sono diventato papà. E questo diventare papà mi ha permesso di fare un ulteriore salto di qualità perché mi ha messo di fronte al fatto che la responsabilità è quella di essere sempre più attenti ad ogni piccola cosa che facciamo, perché ogni nostra piccola cosa che facciamo va a influire sull’anima, sulla salvezza e sulla vita di una persona che è vicina a noi. Dico questo non tanto per me, quanto perché è la nostra responsabilità in quanto salvati e chiamati in Cristo.

Oggi io rendo grazie a Chiara, a Loredana, a Nuovi Orizzonti, a Gesù, anche a tutto ciò che ho avuto, sento che la vita è una cosa meravigliosa e che con l’Eucaristia che riceviamo, siamo noi stessi parti del Corpo di Cristo da dare agli altri!


di Mirco Buldrini/ 28/07/2007 - korazym.org

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