Diaz, le telefonate nella notte: è un macello

Le chiamate giunte al 113. «I feriti? Teste aperte a manganellate»

Genova, le registrazioni depositate dalla difesa. Il capo della Digos dice agli agenti: «Ragazzi, le molotov non lasciatemele qui...»

GENOVA

Ore 23.58, 21 luglio 2001. Il signor Scotto, che abita accanto alla scuola Diaz, chiama il 113: «Buonasera, guardi che si stanno suonando di brutto qua sotto, dove c'è il centro, il Forum...». Operatore: «Sì, sapevamo già, grazie». Il signor Scotto: «È un macello». Operatore: «Grazie, sapevamo già, salve». Alla fine si torna sempre al punto di partenza. Il processo per i fatti della scuola Diaz non è nient'altro che questo, il tentativo di far capire a chi non c'era il dolore di chi venne pestato a sangue, lo sbigottimento di chi assistette dalle finestre di casa, il caos, la disorganizzazione e il senso di posticcio che stava dietro all'intera operazione. La registrazione delle chiamate giunte al 113 durante il blitz, che verrà depositata oggi (ultima udienza prima della chiusura estiva) dai difensori di parte civile, almeno è un documento utile a ricostruire il clima emotivo di quella notte tremenda. A scorrere le conversazioni con il 113, l'anarchia sembra regnare sovrana. Ma anche dal caos, così sostengono le parti civili, è possibile avere risposte ai quesiti che fanno parte del processo. All'1.23 chiama il vicequestore Lorenzo Mugolo, furente: «È tutto il giorno che non rispondete a 'sto c... di 113, c'avete una sala operativa che sembra un reattore e non rispondete... Dov'è quel pullman, dove sono le volanti che stanno scortando il pullman? Qui non c'è niente!». Sono dettagli per cultori della materia, ma Murgolo era la persona incaricata della gestione dell'ordine pubblico davanti alla scuola, e quindi anche del deflusso delle persone arrestate. Una funzione che Vincenzo Canterini, capo del reparto Mobile di Roma, in aula ha invece attribuito a se stesso.

A giudicare dalla chiamate al 113, è Murgolo che si occupa della logistica. Canterini invece partecipa al ping pong sui referti medici e sui documenti da produrre la mattina dopo all'autorità giudiziaria. Alle 3.05 è lui a chiamare l'allora capo della Digos Spartaco Mortola: «Oh, scusa se ti disturbo... Mi ha telefonato credo Gratteri (allora capo dello Sco, ndr) per avere... sai, se qualcuno si è fatto male eccetera, io adesso sto facendo fare dei referti e domani mattina te li mando». Mortola: «Falli mandare su direttamente allo Sco, alla squadra mobile». Sottovoce, rivolto a qualcuno nella stanza, il capo della Digos fa anche un accenno ad un "corpo del reato" che in seguito diventerà famoso: «Oh ragazzi, le molotov non lasciatemele qui...». Francesco Colucci, il questore di Genova, si fa sentire più volte «perché vorrei essere informato». Dalla questura chiamano allora il dirigente Alfredo Fabbrocini, presente sul posto: «Ma quanti eravate, quanti erano, così per sapere, perché noi non lo sappiamo...». Risposta, confusa: «Ti direi una bugia, non lo so, c'era un tale caos...». Il 113: «Ti faccio questa domanda, perché ce lo chiede il questore». Fabbrocini: «C'erano tutti, comunque c'era il funzionario della Digos, il funzionario della Mobile, insomma, ero (...) non lo so se non c'era altro. C'era anche Ciccimarra, che lo conosco, ah, c'era Gratteri, c'era anche il dottor Gratteri. Capito? Loro hanno disposto il servizio, noi abbiamo fatto manovalanza». Quello che sembra chiaro a tutti i convenuti è la gravità dell'accaduto. Alle 3.42 la Centrale operativa chiama il posto di polizia dell'ospedale San Martino: «Volevo sapere la situazione dei malati...». Risposta: «Ci sono due riservati, ma non sono gravi». Altra domanda: «Ma cos'hanno subito?». Risposta: «Teste aperte a manganellate». Una delle ultime telefonate al 113, ore 3.55, è di un agente: «Ma senti un po', ne è morto un secondo?». Operatore: «Ma figurati». Agente: «C'è un collega che stava piantonando uno dei fermati, uno di quelli raccolti dalle parti della scuola e praticamente era in una pozza di sangue. Il collega che lo piantonava all'ospedale se ne voleva andare via perché diceva che tanto questo è morto».

di Marco Imarisio - 06 luglio 2007 - corriere.it

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