Inquinamento, il grande bluff di Pechino

Dati «too sensitive», troppo sensibili, tali da far scatenare una vera «rivolta sociale». Per questo il rimedio migliore, si è pensato, è quello di farli sparire, ometterli, cancellarli. La notizia arriva dalla Cina, ma è stata rivelata dal Financial Times, il quotidiano finanziario britannico, grazie all'aiuto di una fonte ben informata. Nei mesi scorsi, il governo cinese ha fatto dure pressioni sulla Banca mondiale affinché questa censurasse i dati conclusivi di un rapporto costato anni e anni di ricerche, e condotto in congiunto dalla Banca e dallo stesso governo cinese: tira le somme sugli effetti dell'inquinamento all'interno del paese. Poi però l'Agenzia per la protezione ambientale dello stato e il governo di Pechino hanno chiesto alla Banca Mondiale (che si è prestata, a quanto pare) di censurare circa un terzo del rapporto: in cui compare scritto, nero su bianco, che ogni anno nella Repubblica popolare 750 mila persone muoiono prematuramente a causa dei veleni scaricati nell'aria, mentre oltre alle 60 mila sono intossicate da acque infette, fonte di epidemie di diarrea, malattie gastrointestinali, infezioni del fegato e dei reni. Un vero e proprio stato in emergenza, che nel rapporto è stato inquadrato in una mappa in cui sono evidenziate le sei zone dove si muore di più. Nelle intenzioni, andavano tolte anche quelle. Per non suscitare «malintesi», o un allarme eccessivo tra i cittadini cinesi, con il rischio di «disordini sociali».

E' ovvio che la Cina abbia tremato. L'inquinamento è ormai un tema a cui l'opinione interna è assai sensibile. Si pensi ai parametri stabiliti dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che misurano il livello di inquinamento atmosferico tramite la concentrazione del «particolato», le microparticelle tossiche nell'aria che respiriamo. Di queste, l'Oms indica nei 20 microgrammi la soglia della pericolosità per la sopravvivenza. Ebbene: secondo gli autori della ricerca, solo l'un per cento dei cinesi residenti nelle grandi città può dirsi di «poco» sotto quella soglia, con meno di 40 microgrammi di particelle tossiche respirate. Il resto, che è il 58% degli abitanti nelle metropoli cinesi, respira un'aria con oltre 100 microgrammi di particolato.

Il rapporto «The cost of pollution in China», il costo dell'inquinamento in Cina, non è stato ancora ufficialmente diffuso. Ne circola però una bozza su internet, diffusa durante una conferenza nel marzo scorso a Pechino, dove i ricercatori (della Repubblica popolare) che avevano messo insieme lo studio davano notizia dei principali risultati raggiunti in occasione di un convegno sull'ambiente. E' cominciata allora la manovra di censura, o edulcorazione. Prima di allora però altri dati «scottanti» hano avuto il tempo di trapelare. Per esempio che delle 20 città più inquinate al mondo, 16 sono cinesi. Il tutto complicato dalla notizia, partita dall'Olanda, che nel 2007 la Cina ha superato gli Stati Uniti e guadagnato il record di primo produttore nondiale di emissioni di gas serra.

Stando così le cose, i fatti confermano che Pechino è riuscita a ottenere che i propri timori fossero quanto meno calmierati, mentre una versione «centellinata» del rapporto cominciava a essere diffusa su internet. Una fuga di notizie da evitare a tutti costi, per un regime dove l'opinione pubblica è ormai avvertita della questione inquinamento - ma allo stesso tempo persegue uno sviluppo economico da cui si attende, nei prossimi otto anni, l'inaugurazione di 550 nuove centrali termoelettriche (quasi tutte a carbone) per soddisfare la crescente richiesta di elettricità esplosa nel paese negli ultimi cinque anni. Il costo di tutto ciò sarà un rilascio nell'atmosfera di tanta Co2 quanta ne emettono, tutti assieme, gli altri paesi industrializzati.

di Chiara Marchionni da "il manifesto" del 05 Luglio 2007 - ilmanifesto.it

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