Torniamo a parlare di Di.Co

Serena Vella, 04 luglio 2007

Approfondimento: I portabandiera della battaglia contro il riconoscimento di
forme di convivenza stabile alternative alla famiglia dimenticano che un
diritto, per esser tale, deve esser riconosciuto a tutti, altrimenti è un
privilegio, e che "predicare virtù pubbliche per praticare vizi privati" è una
cattiva abitudine che la storia ci ha ormai svelato Da molti anni ormai, in
Italia le analisi statistiche attestano una forte diversificazione delle forme
di convivenza fra le persone e dei sistemi di relazioni affettive e di
assistenza: oggi nel nostro Paese si contano circa 1.200.000 "coppie di fatto" a
dimostrazione che la famiglia tradizionalmente intesa non rappresenta più
l'unico modello di relazione tra le persone.

Alcune forme di convivenza diverse dalla famiglia legittima esplicitamente
riconosciuta dall'art. 29 Costituzione ("società naturale fondata sul
matrimonio") sono già state oggetto di attenzione da parte del nostro
ordinamento giuridico; il riferimento è alla c.d. famiglia di fatto, formula con
la quale si usa definire quell'unione tra soggetti di sesso diverso in cui manca
il vincolo matrimoniale e che si basa sull'"affectio" e sul reciproco spontaneo
rispetto dei doveri familiari. La sua enorme diffusione sociale ha portato la
giurisprudenza a confrontarsi lungamente sul tema della sua rilevanza giuridica
e sulla disciplina dei rapporti che ne discendono. La questione è resa ancora
più complessa dal fatto che la richiesta di riconoscimento di tale forma di
unione si è fatta sempre più forte anche da parte di persone dello stesso sesso.


Ad oggi manca un impianto normativo globale ed organico che disciplini questi
rapporti e le sporadiche norme attribuiscono solo taluni effetti giuridici
isolati, creando così una situazione di vuoto normativo che uno Stato
democratico e di diritto ha il dovere di colmare per garantire pari diritti ed
eguale dignità a tutti i suoi membri. A questo obiettivo cerca di rispondere il
disegno di legge governativo sui DI.CO., appositamente intitolato "Diritti e
doveri delle persone stabilmente conviventi", e finalizzato al riconoscimento di
taluni diritti e doveri discendenti da rapporti di convivenza registrati. I
beneficiari del provvedimento sarebbero "due persone maggiorenni, anche dello
stesso sesso, unite da reciproci vincoli affettivi, che convivono stabilmente e
si prestano assistenza e solidarietà materiale e morale".

I diritti fruibili sono diversi a seconda della durata della convivenza: diritti
e tutele del lavoro dopo tre anni, diritti di successione dopo nove anni. Tra
questi merita di essere segnalato, quale esempio di civiltà giuridica, il
diritto a designare il convivente come rappresentante in caso di malattia
invalidante (...) e in caso di morte per la donazione degli organi e le modalità
di trattamento funerario (...).

Il disegno di legge è stato caratterizzato da accese polemiche e fatto oggetto
di strumentalizzazioni politiche che hanno inquinato il pur giustissimo
dibattito richiesto quando occorre legiferare su temi così complessi e delicati.
Si è così "sapientemente" parlato dei DI.CO. come un attacco all'istituto della
famiglia come inteso dall'art.29 Cost. e come apripista verso il matrimonio tra
omosessuali o il riconoscimento del loro diritto all'adozione. Alcuni
chiarimenti si impongono dunque per onestà intellettuale.

Intanto il provvedimento sui DI.CO. non intende scardinare l'istituto della
famiglia di cui all'art. 29 ma dare attuazione all'art. 2 Cost., che "garantisce
i diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali in
cui di svolge la sua personalità", nonché all'art. 3 che sancisce "l'eguaglianza
dei cittadini (...) senza distinzioni di sesso (...)". Non può dubitarsi che le
unioni di fatto, omo ed etero, siano formazioni sociali dove un aspetto
essenziale è il libero sviluppo della personalità: dar loro riconoscimento vuol
dire attuare l'art. 2. Mentre rendere effettivo l'art. 3 vuol dire riconoscere
pari dignità sociale e garantire l'eguaglianza dei cittadini che scelgano di non
sposarsi o di quelli che abbiano un orientamento sessuale diverso e che si
uniscano in convivenza. Come evidenziato da Rodotà "in questo sta la dimensione
costituzionale del progetto di legge", una Costituzione laica che sancisce la
"inviolabilità" dei diritti e non la loro "inestensibilità". Ed a Mons. Sodano
che si chiede "si parla di desideri o diritti veri?", pare più giusto chiedersi
"come, quando e chi definisce un vero diritto?".

Se bastassero le leggi date in un certo momento ( come dice F. Colombo) sarebbe
ancora vigente il sistema familiare patriarcale fascista in cui la donna era
solo creatura obbediente al suo destino biologico e alla funzione riproduttiva,
la violenza sessuale sarebbe ancora un delitto "contro la morale" anziché
"contro la persona" (come fino al 1996!), le donne sarebbero costrette a morire
sulle tavole delle mammane per sottoporsi all'aborto clandestino e ad essere
mogli a vita anche se all'interno di un matrimonio infelice e teatro di
violenze. Al grande cambiamento morale e giuridico prodottosi negli anni '70 del
secolo scorso in seguito alle battaglie per l'emancipazione ed i diritti, si
opposero, tra l'altro, allora come oggi, forze politiche presuntamente moderate,
che pur affermano di fare della tutela delle persone la loro ragione di
esistenza. Questa contraddizione oggi si ripropone in quei deputati e senatori
che, pur contrari ad ogni regolamentazione dei diritti dei conviventi,
beneficiano di un sistema privilegiato di cospicue tutele sanitarie e
previdenziali per i propri conviventi, come quello previsto sin dal 1992 dai
regolamenti parlamentari.

I portabandiera della battaglia contro i DI.CO. dimenticano che un diritto, per
esser tale, deve esser riconosciuto a tutti, altrimenti è un privilegio, e che
"predicare virtù pubbliche per praticare vizi privati" (N. Vendola) è una
cattiva abitudine che la storia ci ha ormai svelato. E come trascurare la
campagna di anatemi di una parte della Chiesa la cui gerarchia talvolta sembra
non aver occhi per vedere se non se stessa?. Una pericolosa "ideologizzazione
della teologia" ha portato l'arcivescovo Bagnasco a sostenere che "il
riconoscimento di forme di convivenza stabile alternative alla famiglia
porterebbe domani alla legalizzazione dell'incesto e della pedofilia tra persone
consenzienti" (!) Un'affermazione, oltre che gravemente lesiva del diritto alla
diversità di opinioni, tra l'altro priva di alcun riscontro/fondamento
sociologico visto che, dalle indagini svolte dai numerosi organismi che operano
sul tema della violenza è emerso come la stragrande maggioranza degli abusi su
donne e minori si consumano all'interno delle mura domestiche e che proprio la
intoccabile "sacralità" della famiglia tradizionale spesso inibisce le vittime e
le induce al silenzio. L'affermazione di Mons. Bagnasco giungeva, inoltre,
proprio nei giorni dello scandalo degli abusi contro bambini e giovani donne da
parte del prete di una parrocchia vicino Firenze, già portati a conoscenza di
una diocesi che, tuttavia, aveva ritenuto fino ad oggi di poter "far da sé",
sprezzante dei doveri morali di denuncia di così gravi reati alle competenti
autorità civili! E' chiaro che lo sdegno verso queste dichiarazioni non cancella
il profondo rispetto verso quella Chiesa e quella tanta parte dei credenti che
riconosce la verità e la ricchezza delle scelte soggettive, anche di quelle in
contrasto con gli orientamenti dottrinari della Chiesa, nel presupposto che le
coppie si amano o non si amano a prescindere dal fatto siano vincolate
religiosamente, civilmente o "di fatto". Perché vi può essere una totale
mancanza d'amore, solidarietà e rispetto anche nelle relazioni tra persone che
si sono giurate eterna fedeltà reciproca davanti ad un altare o ad un sindaco.
Perché "nella prospettiva cristiana non è il rito a render sacro l'amore...la
sacralità è propria dell'amore e l'amore è sempre nella dimensione di promessa
religiosa, che si sia o no credenti, perché può anche terminare ma non è mai a
termine. L'amore rappresenta la crisi della norma... ed è esattamente il
contrario del potere..." (S. Tarter). Per questo nessuna Chiesa e nessun potere
dovrebbe disprezzare il desiderio di due persone, etero od omosessuali che
siano, che volendosi bene chiedono la protezione giuridica (non solo in
"autonomia privata") della loro unione fatta di diritti ma anche di doveri,
anche se diversa dalla famiglia tradizionale ma frutto della evoluzione delle
strutture sociali. In queste "unioni" i figli non saranno meno tutelati di
quanto possano esserlo in una famiglia, sia pur tradizionale, ma tuttavia
minacciata non tanto dall'allargamento dei diritti bensì da una condizione di
solitudine e precarietà e da una fragilità ed instabilità dei rapporti umani
frutto di un modello sociale di sviluppo economico sempre meno solidale e sempre
più egoistico.

Il 2007 è stato dichiarato dall'Unione Europea "Anno europeo delle pari
opportunità"; non perdiamo l'occasione per recuperare il gap che ci separa dagli
atri Paesi nella regolamentazione delle unioni civili; dibattiamo con opinioni
diverse ma senza pregiudizi ideologici per il rispetto della dignità e della
libertà umana ed il riconoscimento delle diversità.

Senza seguire la via dei fondamentalismi e delle crociate ma quella del DIRITTO
"la cui grandezza risiede non nelle norme stabilite dalla natura ma proprio
nella nostra capacità di assegnare diritti" (R. Bodei).

06 Luglio 2007 - tamles.net

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