Chi piange per i poveri?

Disuguaglianza sociale e felicità


Europa e Stati Uniti a confronto

Milano, 24 lug. - Nel bastimento carico carico di luoghi comuni e preconcetti che ingurgitiamo ed espelliamo ogni giorno, i ragionamenti sulla disuguaglianza e sulla povertà di solito si collocano sul punto più alto della prora. Riflettendo a bruciapelo, chiunque solitamente tende a dare una connotazione molto negativa al fatto che alcuni abbiano molto e altri molto poco. Va da sé.

Che poi, a conti fatti, ciascuno nella sua tana viva nel migliore (o peggiore) dei mondi possibili poco importa: dire che la società è ingiusta e crudele non costa nulla e, in una certa misura, fa sentire in pace con la coscienza chi sta bene, attivo e "nel mondo" chi sta male. Nella narrativa che ognuno fa di sé e utilizza per dialogare con gli altri, il bla bla bla intorno alla povertà è un calcificante relazionale di strepitosa efficacia.

Abbandonando tuttavia per un istante la dimensione della chiacchiera, potrebbe essere interessante chiedersi in che misura un contesto sociale caratterizzato da una forte disuguaglianza influisca sul modo in cui ci percepiamo e raccontiamo felici. Il buonsenso immediatamente suggerisce che i poveri siano condizionati negativamente dalla disuguaglianza, mentre i ricchi siano tendenzialmente indifferenti. Il ragionamento è naturalmente sensato e per certi versi veritiero, ma manca di rispondere a una domanda che, per la sua imbarazzante semplicità, dimentichiamo spesso di farci: perché?

Pensando a ingiustizie sociali e povertà infatti, muoviamo sempre i nostri pensieri dalla prospettiva della possibilità: se sono ricco posso permettermi la casa, la macchina, la badante ecc. se sono povero devo fare i salti mortali per arrivare a fine mese; in questa equazione perfetta, l’alta disuguaglianza (come percezione generalizzata) influisce negativamente sulla felicità di alcuni, non intaccando quella di altri. Tuttavia la percezione che ciascuno ha di sé e la relativa sensazione di benessere/malessere sono fortemente condizionate da quello che il nostro immaginario rende pensabile (e quindi, almeno teoricamente, possibile): sarà capitato a tutti almeno una volta di riuscire bene in qualcosa perché ci si è dati la possibilità di crederci. Allo stesso modo, riusciamo spesso a non farci abbattere da situazioni mortificanti o spiacevoli raccontandoci o che tanto, in fondo in fondo, siamo altro (è andato male un esame. Eh, ma tanto io sono una ballerina…), o pensando banalmente che domani andrà meglio. Questi piccoli trucchi che usiamo per "darci una mano" però, sono ben lungi dall’essere escamotage grotteschi per non guardare in faccia la realtà: sono gli strumenti principe della sopravvivenza e i mattoncini fondamentali della nostra capacità di risolvere problemi; Laszlo Méro, matematico e psicologo ungherese, parlerebbe di trance-logica: a fronte di una situazione apparentemente irrisolvibile, troviamo una soluzione positiva facendo leva su strumenti che di per sé nel contesto non avrebbero alcun significato e pertinenza; il "fare giardino", per chi frequenta i romanzi di Pinketts.

Tornando al problema della disuguaglianza, viene da chiedersi se questa sia di per sé un fatto problematico in termini di soddisfazione e felicità personale o sia piuttosto il riflesso di un problema percettivo più ampio: chi è "infelice" o preoccupato dalla povertà e polarizzazione reddituale lo è perché semplicemente ne subisce gli effetti o perché dietro a questa vede una possibilità/impossibilità di cambiare le proprie sorti?

Nel 2003 Alberto Alesina, direttore della facoltà di economia di Harvard, assieme ad altri studiosi (Di Tella, MacCulloch) hanno pubblicato un’analisi comparativa fra Europa e Stati Uniti circa gli effetti della disuguaglianza sociale sulla percezione del proprio benessere. Quello che emerge lascia molto da pensare.

I governi europei, com’è risaputo, sono maggiormente impegnati nella redistribuzione della ricchezza rispetto agli Stati Uniti; i sistemi fiscali europei sono più progressivi (più soldi hai, più tasse paghi) di quello statunitense e il "welfare state" è più generoso. Per fare un piccolo esempio, nel 2000 la spesa pubblica del governo negli Stati Uniti pesava sul PIL per il 30%, mentre in Europa (in media), il 45%; la quota di trasferimenti (da ricchi a poveri) sul PIL era intorno all’11% in US contro il 18% in Europa (con picchi del 20% guardando alla Germania), quando all’inizio del diciannovesimo secolo in entrambi non si superava l’1%. Uno sforzo redistributivo così alto da parte dei governi dovrebbe significare che una larga parte della popolazione sia in favore di queste politiche: i "poveri" teoricamente dovrebbero apprezzare la redistribuzione poiché ne sono i diretti beneficiari, salvo considerare che i poveri di oggi potrebbero essere i ricchi di domani, e quindi, con una discreta lungimiranza, potrebbero osteggiare oggi alcune forme di trasferimenti. I ricchi, dall’altro lato della barricata, dovrebbero essere contrari a forme di redistribuzione ma, qualora temessero di diventare poveri, dovrebbero favorirle, vedendole come una forma di assicurazione contro futuri rovesci della sorte.

E quindi?

Europa e Stati Uniti sembrano presentare tendenze profondamente differenti.

L’analisi, condotta su dati del US General Social Surveys (Chicago University) e Euro-barometer Surveys Series (Commissione Europea), ha messo in luce come sia gli statunitensi che gli europei si considerino meno felici quando la disuguaglianza percepita è alta; tuttavia, l’avversione per la disuguaglianza è concentrata, fra i due continenti, in gruppi "ideologici" e di reddito molto differenti: guardando all’appartenenza politica dichiarata, negli Stati Uniti essere democratico o repubblicano sembra non costituire un discrimine significativo per capire chi ritenga la disuguaglianza un problema e chi no. In Europa, al contrario, quelli che si definiscono di sinistra mostrano una maggiore sensibilità alla questione rispetto a quelli che si professano di destra che, al contrario, dichiarano che nell’economia della loro esistenza, il problema non sia così sostanziale.

Considerando gli intervistati sotto il profilo reddituale poi, incredibilmente le persone di reddito medio basso negli Stati Uniti hanno dichiarato che la loro felicità non sia condizionata dalla disuguaglianza subita, mentre i ricchi hanno mostrato una forte preoccupazione (e conseguente ridimensionamento delle dichiarazioni circa la propria felicità) per le conseguenze di questo fenomeno.

E in Europa? La felicità dei "poveri" è influenzata in modo fortemente negativo dalla disuguaglianza, mentre i "ricchi" sembrano non interessarsene. Riassumendo: negli Stati Uniti gli unici a dichiarare che le disuguaglianze sociali influenzano negativamente la propria sensazione di benessere sono stati le persone di ceto medio alto; in Europa poveri e persone "di sinistra".

Alesina e colleghi suggeriscono una possibile chiave interpretativa: la mobilità sociale percepita. Gli americani riterrebbero che nella loro società passare dalla ricchezza alla povertà sia possibile, posto il duro lavoro e il sacrificio; gli europei al contrario, abituati a vivere in un contesto in cui il tuo successo è dettato in larga parte da quello di chi è venuto prima di te (genitori, parenti ecc…), sarebbero meno proni ad avere una visione così ottimistica del cambiamento.

I dati del World Values Survey (http://www.worldvaluessurvey.org/) confermano l’intuizione: solo il 30% degli americani ritiene che un indigente sia inevitabilmente intrappolato nella povertà contro il 60% degli europei; par contre, il 60% degli americani pensano che i poveri siano pigri, contro il 25% degli europei. Si spiega così la forte riluttanza dei cittadini europei ad accettare riduzioni delle spese per la protezione sociale e la tendenza a sottovalutarne i costi per la collettività.

Per quanto risultati di questo tipo possano sembrare banali, chiedersi attraverso quali canali (psicologici e non) i problemi sociali influiscano sulla nostra "felicità" è un elemento essenziale per capire in quale modo la politica possa effettivamente contribuire al reale benessere dei cittadini e quali trucchi questa utilizzi per raccogliere consensi. Sotto l’egida di un ferreo determinismo economico (l’economia determina ogni cosa) infatti, dal secondo dopoguerra in poi buona parte della storia della politica è stata caratterizzata dalla convinzione che un PIL galoppante garantisse una sicura rielezione: nel 1999 il senatore americano Robert Byrd scriveva che "nessun presidente sarà mai destituito quando l’economia è ai massimi storici; nel rispondere ai sondaggi, la gente vota col portafogli". Pochi anni prima Clinton correva per la presidenza forte dello slogan "è l’economia, schiocchi!".

Non è un caso quindi che i tagli alle tasse e gli aumenti di spesa pubblica avvengano sempre, con una regolarità sbalordente, verso fine legislatura. Tuttavia, come sottolineato dallo storico Niall Ferguson nel suo messianico libro "Cash Nexus", la storia sembra avere un opinione diversa: la popolarità del governo Tatcher raggiunse il suo picco proprio negli anni in cui la disoccupazione era alle stelle; Blair cominciò a perdere consensi in un periodo in cui l’occupazione cresceva; un’economia rubizza e in piena crescita non impedì allo scandalo Watergate di travolgere Nixon. Aver più soldi in tasca, in sostanza, non garantisce una maggiore serenità e una conseguente conferma della politica. E quindi? L’equazione perfetta maggior ricchezza= maggior felicità= conferma dell’establishment di governo sembra saltare. È in particolare il legame tra ricchezza reale e benessere percepito che sembra dar maggiori problemi: forse, ancora una volta, quel che conta non è quello che è realmente ma quello che si percepisce che sia e possa essere. Per quanto l’economia italiana vada maluccio, gli italiani da una quindicina d’anni a questa parte, hanno cominciato a indebitarsi di più, per la gioia delle società di leasing e di credito al consumo. A dispetto tuttavia di una ricchezza reale rimasta tendenzialmente invariata, la preoccupazione e infelicità degli italiani rispetto all’iniquità reddituale sembra in diminuzione (World Values Survey 2007).

Ancora una volta la tesi di Alesina trova conferma: più si crede di poter migliorare la propria condizione, meno la propria felicità dichiarata è influenzata dalle disparità sociali. Che poi il salto di qualità sia realmente possibile o meno poco importa. E così una vacanza in leasing, che sia a Ladispoli o in Polinesia Francese, sembra basti a farci sentire più sicuri, forti e felici. In molti hanno visto nell’ampio consenso accordato a Berlusconi il riflesso politico di questa "economia della (dis)percezione". Ma questa è un’altra faccenda.

Riaffiora alla mente una vecchia storiella: due anziani, seduti su una panchina, vedono passare una bella ragazza. "sai – dice uno dei due – ieri quella lì avrei potuto portarmela a letto". "perché la conosci?", "no, ma ce l'avevo duro".

E a volte, per credere di stare bene, basta davvero questo.

LB - Luigi.butera@voceditalia.it - Data: 24/07/2007 - voceditalia.it

Nessun commento:

Basta guerre nel mondo!