Povertà: più servizi, meno carità

«Più servizi e meno trasferimento di denaro». Così può essere sintetizzata la ricetta che Caritas Italiana, in collaborazione con la Fondazione Zancan, offre al Governo per una più efficace lotta alla povertà. Nei giorni scorsi a Roma è stata presentata un'anticipazione del Rapporto 2007 su "Emarginazione ed esclusione sociale", che sarà pubblicato in ottobre. Una scelta, quella di anticipare i tempi dettata, ha spiegato mons. Vittorio Nozza, direttore di Caritas italiana dal desiderio di «dare un contributo competente, motivato e tempestivo per il prossimo Dpef».

Dal Rapporto emerge innanzitutto la disparità sociale: «L'Italia non è il posto dell'uguaglianza né delle opportunità», ha proseguito mons. Nozza, tanto che più di altri Paesi europei presenta grandi differenze tra chi vive in un discreto benessere, chi tutti i giorni lotta per non oltrepassare la soglia della povertà e chi dentro la povertà ci sta da tempo e non intravede nulla di nuovo per il futuro.
La soglia della povertà in Italia è calcolata diversamente da altri Paesi in riferimento al consumo e non al reddito, alla famiglia e non all'individuo; così una famiglia viene considerata povera quando la sua possibilità di consumo è inferiore a quella media della famiglia italiana. Tale cifra si aggira sui 900 euro per un nucleo di due persone. Cosi abbiamo 7,5 milioni di italiani sotto tale soglia, a cui si devono aggiungere altre 900.000 famiglie che la superano di 10 o al massimo 50 euro la soglia.

Il 13% degli italiani sono poveri. «Ma - sottolinea mons. Giuseppe Pasini, Presidente della Fondazione Zancan - il problema è ancora più grosso perché da dieci anni il numero dei poveri è rimasto immutato, fermandosi al 13,1% della popolazione, mentre il resto del Paese cresce di reddito e consumi».
Un fenomeno tutto italiano, accompagnato da tante fragilità come i conti pubblici, le imbarazzanti divergenze tra Nord e Sud, la tragica carenza di innovazione, l'elevata disuguaglianza sociale ed economica, la sperequazione del reddito pro-capite, che è spiegato da almeno tre ragioni: «Primo, l'Italia manca di un piano di lotta alla povertà». E' disseminata di "buone intenzioni" ma «esse non si sono mai tradotte in un piano esplicito, serio, organico di lotta». Secondo, spiega mons. Pasini, «c'è un legame stretto tra povertà e denatalità». Le famiglie con più figli sono più esposte alla povertà. Un figlio in più è una crescita del rischio di impoverimento. «Occorre allora una seria politica a sostegno della famiglia, alla quale l'attuale Governo sembra ben intenzionato ad incamminarsi ma che manca ancora di attuazione e concretezza». Infine, «la povertà produce e alimenta la esclusione sociale». C'è un rapporto di causa-effetto perché «chi è impegnato nella sopravvivenza quotidiana non ha né il tempo né la voglia di occuparsi della "cosa pubblica".

Che fare? La Fondazione Zancan, per bocca del direttore scientifico Tiziano Vecchiato, propone un «piano strategico capace di avviare un percorso che non è soltanto operativo ma anche di condivisione e di integrazione di responsabilità». Due le scelte di medio e lungo termine: passare «da trasferimenti monetari a servizi», per un migliore governo della qualità di risorse oggi disponibili e poi passare «da una gestione centrale a una decentrata, per una diretta responsabilizzazione nella gestione e nella verifica di efficacia, oltre che per dare una attuazione alla modifica del Titolo V della Costituzione in materia di decentramento».

In Italia i soldi per il sociale non mancano, ma secondo i relatori del Rapporto sono gestiti male. Il trasferimento monetario caratterizza i vecchi sistemi di welfare ad ispirazione socio-assistenziale, dove lo Stato eroga denaro a persone aventi diritto (anziani, disabili.ecc). Occorre invece puntare ad erogare e potenziare i servizi; in questo modo si lavora per «bisogni verificati, per un'integrazione sociale, e coscienza dei diritti e dei doveri della cittadinanza», si legge nel Rapporto. Un esempio?
L'accompagnatoria per gli anziani che potrebbe essere sostituita con un servizio adeguato e migliore. Inoltre la sperimentazione del Reddito di inserimento ha messo in evidenza come avrebbe più senso parlare di "piano di inserimento sociale con il sostegno del reddito", enfatizzando cioè il fine principale (l'inserimento sociale) e non il mezzo (il reddito minimo). In questo allora si comprende come un decentramento aiuterebbe molto in efficacia ed efficienza. La strada legislativa è già stata aperta nel 2000, così, hanno concluso mons. Nozza e mons. Pasini, non resta che percorrerla con coraggio.

Michele Trabucco - 30/07/07 - gvonline.it

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