La giustizia Usa condanna i soldati che sbagliano

Il processo ai cinque soldati americani della prestigiosa 101/a divisione aviotrasportata per lo stupro e l’omicidio di Abeer Qassim Hamza al Janabi - una ragazzina irachena di soli 14 anni - e l’uccisione della sua famiglia, non è in grado di delegittimare la missione statunitense a Baghdad; né pone in discussione la professionalità e l’umanità di tutti i militari che ogni giorno rischiano la propria vita al fine di creare le condizioni per uno Stato libero e democratico in Iraq. Tuttavia, è innegabile che nel corso della vicenda sono emersi interrogativi critici, sin dall’ordine del Pentagono del 18 ottobre 2006 che sottopone gli accusati al giudizio della corte marziale.

I fatti sono stati resi noti grazie alla testimonianze del soldato scelto James Barker e del sergente Paul Cortez, che hanno accettato di collaborare dichiarando la propria colpevolezza in cambio della garanzia di evitare la pena capitale.

Il 12 marzo 2006, in uno degli accampamenti statunitensi nei pressi di Baghdad, Barker sta giocando a carte con un suo commilitone, il soldato scelto Steven Green. Per passare il tempo, per alleviare la tensione e per rianimarsi dalla stanchezza di lunghi turni ai checkpoint nella calura opprimente, mandano giù whisky mischiato ad una bevanda energizzante. Tra gi scherzi e le battute di cattivo gusto, si fa strada l’idea di fare sesso con una ragazzina irachena, lanciata un po’ per goliardaggine e un po’ per spavalderia da Green - il classico cattivo elemento, 21 anni, entrato nell’esercito ancora minorenne per sfuggire ad una condanna per consumo di alcol; in seguito ripreso dai superiori per consumo di stupefacenti e, ancora, per abuso di alcolici. A loro si uniscono il sergente Paul Cortez, 24 anni, e i soldati di prima classe Jesse Spielman, 22 anni, e Bryan Howard, 19. Barker e Green hanno pianificato tutto: una famiglia a Mahmudiya, piccolo villaggio a una trentina di chilometri da Baghdad. La ragazza in realtà è poco più che una bambina; ma in casa solo un uomo, il padre, a proteggere la moglie e le figlie. Facile anche trovare un pretesto per la spedizione: rintracciare presunti terroristi.

I cinque fanno irruzione nell’abitazione. Green e Cortez trascinano la famiglia in camera da letto; lasciando Green di guardia, Cortez torna in soggiorno dai compagni con la più grande delle due figlie, Abeer, e la stupra. Poi è il turno di Barker. Improvvisamente, gli spari: “Li ho uccisi”, dice Green entrando nel soggiorno, senza espressione; “sono tutti morti”. Barker si affretta a terminare con Abeer. Poi è il turno di Green. Spielman e Howard inizialmente fanno la guardia, poi partecipano allo stupro. Green intanto comincia a versare cherosene sui corpi; i soldati gettano le uniformi e ne indossano di pulite. Anche l’AK-47 con cui Green ha sparato verrà fatto scomparire in un canale di scolo, poco distante. Resta il fatto che ogni instante che passa, la giovane Abeer -terrorizzata e piangente - diviene sempre meno un trastullo, e sempre più un pericolo. Green le punta la pistola alla tempia e spara, una, due, tre volte. Il fuoco che Green appiccherà da lì a poco cancellerà quasi tutti gli altri resti di questa disumana tragedia.

Ora i soldati affrontano il processo sotto corte marziale. Tutti, tranne Steven Green, che l’esercito (ancora non a conoscenza del fatto) ha poi allontanato per “disturbi alla personalità”. Nonostante le testimonianze dei suoi commilitoni che lo indicano come l’ideatore del crimine, Green insiste a proclamarsi innocente. James Barker è già stato condannato a 90 anni di prigione per omicidio e stupro, da scontarsi in un carcere militare; ha confessato in lacrime, affermando di non sentirsi nemmeno degno di chiedere il perdono della corte. Cortez, ha anch’egli mostrato rimorso nel ricordare i fatti; pur tenendo conto della sua collaborazione, è stato comunque condannato a 100 anni con la condizionale, con il divieto di appello prima di 10 anni. La più recente - ma non ultima - sentenza è quella di Jesse Spielman, emessa il 5 agosto; la condanna per Spielman è di 110 anni per omicidio e stupro, e anch’egli dovrà aspettare almeno 10 anni prima di richiedere la libertà condizionale. Si attende la conclusione del processo per Howard, e in particolar modo il verdetto per Green, che essendo stato radiato dall’esercito verrà giudicato da un tribunale civile, rischiando anche la pena capitale.

Molte le problematiche sollevate dal massacro di Mahmudyia. In primo luogo, il diverbio politico in merito alle competenze giudiziarie: non appena resi noti i termini del processo, lo scorso ottobre, il Primo Ministro iracheno Nouri al-Maliki aveva chiesto la revoca dell’immunità dalla giustizia irachena di cui godono le truppe straniere a Baghdad. In Iraq, per il reato di omicidio - ma specialmente per stupro - si può richiedere la condanna a morte del responsabile. I soldati statunitensi invece, aggiungendo all’immunità speciale garantita alle truppe straniere il “non luogo a procedere” contro i militari americani, concesso dal Tribunale Penale Internazionale in seguito al voto contrario degli USA allo Statuto Penale Internazionale nel 1998, sono certamente protetti dal rischio di pagare per il proprio crimine secondo la legge irachena. Oltre ad accusare gli Stati Uniti di gestire la sicurezza in Iraq con due pesi e due misure, scegliendo di processare i soldati americani negli USA, si mormora che lo sdegno della comunità irachena abbia spinto un gruppo di insorti - l’Esercito Islamico d’Iraq - a costruire per rappresaglia un missile che può colpire i nemici a 15 chilometri di distanza. Lo hanno chiamato Abeer.

A tutto ciò si aggiunge la poca fiducia nella giustizia statunitense espressa al quotidiano britannico The Guardian dallo zio di Abeer, Ahmad Qassim. Pur restando il rispetto per il dolore dell’uomo alla perdita dei familiari, colpisce la generale insistenza irachena a difendere l’onore di una giovane vittima di violenza sessuale in un paese dove le donne non sono nel concreto protette da abusi e violenze, e certamente non vengono incoraggiate a rivendicare i propri diritti e la propria libertà quando si tratta di eredità, matrimonio, lavoro e tutela dei figli. In ogni caso, la questione sollevata dal Primo Ministro iracheno Nouri al-Maliki e da Ahmad Qassim resta valida: è opportuno interrogarsi quanto sia coerente combattere per il regime change in Iraq, quando poi non si è pronti ad accettarne i frutti. Nello specifico, l’America deve adottare una posizione chiara rispetto ad una Costituzione approvata democraticamente che contempla la pena capitale per alcuni reati, e rivendica la legittima sovranità nazionale nell’applicarla al proprio territorio. Se si tollera che l’Iraq esegua una sentenza capitale come nel caso di Saddam Hussein, in nome del rispetto per la decisione di uno Stato sovrano in merito ad un crimine commesso sul suo territorio, non ci si può opporre quando sul banco degli imputati si trovano i liberatori. O quantomeno non si può pretendere che gli iracheni lo accettino di buon grado.

Un’ulteriore riflessione è relativa all’inevitabile declino numerico e qualitativo delle truppe USA, accompagnato all’esponenziale aumento delle unità impiegate nella missione in Iraq. L’esercito statunitense, a corto di reclute, sta accettando sempre più membri della cosiddetta “quarta categoria” (i candidati che non conseguono risultati apprezzabili nei test attitudinali militari); oppure giovani con precedenti per droga e alcolismo, come tristemente evidente nel caso del soldato Green. Questo risulta nella presenza sul campo di battaglia di soldati giovani, male addestrati e, ancora più grave, inadatti a sopportare lo stress fisico e psicologico che le situazioni di combattimento immancabilmente portano con sé.

Detto questo, come ha affermato il capitano William Fischbach, pubblica accusa nel processo a James Barker, le condizioni di logoramento fisico e mentale a cui sono sottoposti i militari in guerra, l’alcol e la giovane età non costituiscono scusanti per i soldati che hanno ideato e perpetrato il massacro di Mahmudyia. Abeer e la sua famiglia, ha detto Fischbach alla corte mostrando una foto della giovane, non meritavano di subire quella tortura. Abeer non aveva mai fatto nulla per nuocere ai soldati americani; certamente non era responsabile degli episodi a cui i cinque avevano assistito e dai quali il loro spirito debole era emerso irreparabilmente distorto, lasciandoli in balia di sentimenti astiosi e violenti verso la popolazione irachena.

La fiducia nelle corti militari statunitensi non è tuttavia malriposta. Sin dai tempi del Vietnam e del massacro di My Lai, che la penna di una giovane ed indomita Oriana Fallaci fece conoscere all’Italia nel 1969 con la sua toccante testimonianza nel libro Niente e Così Sia, l’America ha punito severamente i soldati che contravvenivano alle leggi di guerra, e li ha puniti perché è giusto farlo. La giustizia umana è talvolta imperfetta; e magari la guerra al terrorismo in Iraq non è stata sempre condotta in maniera irreprensibile. Ma le leggi di guerra esistono, e si possono far rispettare. Gettare tutto alle ortiche per la condotta di pochi elementi deviati - elementi che peraltro pagheranno per ciò che hanno fatto - sarebbe decisamente ingiusto, nonché controproducente per il successo della missione in Iraq e della guerra al terrorismo.

06 Agosto 2007 - di Alia K. Nardini - loccidentale.it

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