Nella valle dei suicidi

Il cuore malato della Valtellina, prima per benessere e depressione


Sì, da quel ponte la gente si butta giù. Lo confermano tutti con discrezione, con un'ombra di mestizia nello sguardo. Il ponte varca il torrente Valfontana vicino a Castionetto, sotto rocce e acqua gelida. Un ragazzo del paese, più o meno 2000 anime, campi e bestiame, ricorda ancora il giorno di qualche anno fa quando una ragazzina andò lì in bicicletta e si lanciò nel vuoto, forse per paura di una brutta pagella. Altre volte sono stati amori andati male, magagne del lavoro, o l'insopportabile banalità della vita quotidiana a spingere gente qualunque, d’ogni età, a togliersi la vita. E di viadotti così, come quello sul Mallero, all'entrata di Sondrio, o spunzoni di roccia che si protendono verso il nulla, ce ne sono parecchi in Valtellina. Perché questa zona detiene il primato in Italia per densità di suicidi. Nel 2005 sono stati 10 su 100mila, negli anni prima 16, 19, 30. Contro una media nazionale intorno ai 6. Quindi anche cinque volte tanto. Come in Ungheria, nel grande Nord, o in Russia, se non peggio.

E pensare che la Valtellina, e Sondrio, il suo capoluogo, ogni anno sono anche ai primi posti nelle classifiche di benessere, qualità della vita, tranquillità sociale. Naturalmente i numeri e le classifiche non sempre riescono a fotografare la complessità della vita e le ferite dell'animo. Mario Ballantini, direttore del Dipartimento di Psichiatria nell’azienda ospedaliera Valtellina e Valchiavenna, dice di prendere le statistiche con le molle. E che è vano cercare i moventi di questa epidemia silenziosa nell’ambiente. «Il suicidio è un fenomeno complesso, non c'è mai una causalità lineare - spiega -, e men che meno ragioni ambientali. Alla base c'è la solitudine, la depressione, e anche l'alcolismo, un fattore trascurato ma devastante. In queste zone si beve moltissimo, un tempo l'abitudine al vino era socialmente integrata, correlata allo sforzo fisico, alla comunicazione tra gli esseri umani. Ora la bottiglia è spesso un facile tentativo per sfuggire alla depressione».

La fatica dei monti, la lotta impari con la natura matrigna, sembrano appartenere a un lontano passato. Vedi serpentoni di Suv e macchinoni per le strade, case nuove che s’inerpicano sui pendii come mirtilli, sequenze infinite di capannoni industriali sul fondo valle, stazioni sciistiche famose. Qui la montagna non muore di povertà. E’ diversa la malattia che la corrode dall’interno. Se alzi gli occhi al cielo le vette sono bellissime, i prati, le foreste, la neve. Se abbassi lo sguardo, le opere dell’uomo sono orrende. Come se fossero sorte per rispondere a un'improvvisa fame di ricchezza, di operosità, senza un progetto comune, senza armonia con la natura. La modernità ha stuprato il paesaggio. E forse in quest'opulenza superficiale e aggressiva si riverbera il disagio muto degli esseri umani, con la loro solitudine irrisolta.

Giovanna Bellandi fa parte di un'associazione, l’Asis, che gira le valli ad assistere famigliari che hanno avuto un lutto, a spiegare che la depressione si può curare. «Non credo che le montagne spingano al suicidio, come talvolta si dice. E' un falso mito. Al suicidio si arriva per lucida disperazione. Noi andiamo nei paesi invitando i superstiti di un lutto a sedare il dolore, a discutere, a rivolgersi a medici e specialisti. Ma il dialogo è la cosa più ardua, l'introversione è un carattere costituivo di questa gente. Sono abituati da secoli a tenersi dentro problemi, fatiche, disperazioni. Ogni tanto questo peso interiore esplode, e si traduce in un gesto estremo di rifiuto del vivere».

La maggior parte dei suicidi sono uomini, adulti. Ma il fenomeno cresce tra giovani e adolescenti, i figli di questa società ricca e moderna. E’ la spia di un inedito allarme sociale? Sondrio e la Valtellina, fortunatamente, non conoscono ancora i problemi e le violenze delle grandi metropoli. Non ci sono gang, la droga è limitata, il bullismo quasi inesistente. Qui il problema è forse opposto. L'emergenza è la quiete, il silenzio, il torpore della provincia. Sondrio ha 22mila abitanti, due banche ricche e influenti, centrali idroelettriche, solida maggioranza leghista. Ma se giri per le strada la sera non c'è nulla. Solo tantissimi bar. Non c’è un cinema, neanche un teatro. Le mode paiono sempre arrivare un anno dopo. I giovani, ovviamente, s’annoiano, vogliono spostarsi, migrare altrove. «Ma non è solo questione di divertimento, c'è il disagio di nuove generazioni che non sanno più a che futuro guardare» dice Ivan Fassin, ex preside di liceo, antropologo, ricercatore presso il centro studi della Cisl. «I giovani per esempio studiano mediamente più di quello che è richiesto. Molti frequentano l'università e poi non trovano posti adeguati alle loro conoscenze. Il mercato del lavoro è regolato più dalle conoscenze famigliari che dalla competenza. E questo provoca disagio. Sondrio, e ancor più le valli, soffrono la modernità. Qui la ricchezza è arrivata a palate, ma si è dispersa in mille rivoli, anche per inadempienza della classe dirigente. Manca una cultura civica, tutto si ferma al particolare. E questa atmosfera può essere molto soffocante per le nuove generazioni. Il disagio giovanile cresce in maniera allarmante. E in certi casi il suicidio può essere una estrema di fuga. Non mi stupirei che molte delle cosiddette stragi del sabato sera, gli incidenti a 200 km all'ora sui macchinoni del papà, non siano criptosuicidi mascherati».


19/11/07 - lastampa.it

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