"Racconto questo schifo che è la vita"

Kaurismäki: "Racconto questo schifo che è la vita"

TORINO

«I miei film? Un caos organizzato». «I miei personaggi? Uomini con l’orgoglio di cani randagi. Più vengono sconfitti dalla vita e più dignità hanno per ciò che resta di loro». «La bellezza? La vedo nella poesia delle cose che io considero brutte». «Il miglior attore contemporaneo? Silvio Orlando». Aki Kaurismäki è uomo di poche parole, veloci, pungenti e sussurrate, nella vita come quando dirige sul set. Da capire al volo, o sei fuori dal suo mondo. Ma Aki Kaurismäki è anche «quel certo regista finlandese... la persona più pazza che mi sia mai capitato di incontrare», come ebbe a dire di lui Joe Strummer, chitarrista del gruppo punk inglese Clash, suo attore-cameo in Ho affittato un killer. Per uno che racconta di aver cominciato a fare cinema per non sprofondare nell’alcolismo e descrivere «questo schifo che è la vita» prendersi del pazzo è una stelletta al merito. Stesso orgoglio di quando, nel 2003, entrato nella cinquina degli Oscar dei migliori film stranieri con L’uomo senza passato, stupì tutti con una lettera all’Academy in cui declinava l’invito al gala in aperta polemica con la politica irachena del presidente Bush.

Questi sono giorni tutti italiani per il regista finlandese tra i più amati e rispettati, ospite prima a Torino del Museo del Cinema per la presentazione della monografia dello storico Peter von Bagh a lui dedicata (Isbn Edizioni), e oggi a Bologna per ricevere il «Premio Pasolini 2007» come personaggio dell’anno. Acquavite e sigarette, tanghi di Olavi Virta e arie d’opera accompagnano fedeli i suoi personaggi avari di parole, immersi in mondi teneramente squallidi e desolati. Perdenti a cui dedicare una trilogia: Nuvole in viaggio del 1996, sulla disoccupazione, L’uomo senza passato del 2002, Gran premio della giuria a Cannes, sui senzatetto, e Le luci della sera, 2006, sulla solitudine. «Uomini conosciuti dai cani poliziotto, ma non dalle loro madri. Che comunque non si arrendono mai», dice il regista.

Sul set il suo metodo è contemplativo: non illustra, medita. E lo stesso fanno i suoi personaggi. Perché sceglie dei dialoghi così rarefatti? «Billy Wilder è l’unico ad aver avuto ragione nell’usare la parola. E poi vogliamo mettere la potenza del muto? Charlie Chaplin è il più grande di tutti i tempi». E del cinema italiano che ne pensa? «Sono legato al neorealismo, quello attuale non lo conosco abbastanza, in Finlandia è difficile trovare i vostri film. Ma apprezzo Moretti, e Silvio Orlando, su di lui ho fatto un pensierino, mi piacerebbe averlo in un mio film». Quanto al cinema americano? «Non lo guardo, mi interessano soltanto gli indipendenti come Jim Jarmusch». Conosce la politica italiana? «La definirei... colorata». Che cosa ama più di tutto? «I libri. Mi hanno ispirato: uno dei miei primi film è stato Delitto e Castigo, bella sfida Dostoevskij, vero? Poi Amleto si mette in affari, e ho sistemato anche Shakespeare. Infine con Leningrad Cowboys meet Moses mi sono spinto fino alla Bibbia. Fine del ciclo. I libri raramente ti deludono e lasciano più libertà all’immaginazione di altre cose. Ovviamente anche dei film».

CLAUDIA FERRERO - lastampa.it

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