Welfare, perché l'Italia sbaglia

La discussione sull'extra-gettito, prima, e sul Dpef, ora, è stata in gran parte accentrata sulla riforma degli ammortizzatori sociali, spesso sinonimo in Italia di «welfare state». In tutti gli altri Paesi questo termine denota i tanti possibili programmi della rete di sicurezza sociale.

Solo per citarne alcuni: aiuti di vario tipo per madri singole, minori disabili, l'inserimento sul mercato del lavoro degli emarginati, gli immigrati, i tossicodipendenti e i senzatetto. In Italia con questo termine ci si riferisce a una cosa sola: le pensioni. Con l'eccezione dell'indennità di disoccupazione, il dibattito attuale riguarda soltanto pensioni minime, scalone, revisione dei coefficienti, contributi sociali dei lavoratori parasubordinati e riscatto degli anni di universitàlla laurea. Anche nel Dpef appena approvato quasi tutti i 1.8 miliardi destinati al "sociale" (già al netto dei 500 milioni per la ricerca) si riferiscono a queste voci. Abbondano le buone intenzioni per nuovi o vecchi fondi, agenzie o iniziative varie per questo o quel problema, ma le risorse (finanziarie e politiche) sono tutte assorbite dalle pensioni.

In Italia le pensioni sono spesso usate come strumento surrettizio di welfare, ma sono necessariamente inefficaci. La loro capacità redistributiva (al contrario di molti Paesi nordici) è quasi nulla. Esse perpetuano la dipendenza di intere famiglie dagli anziani e limitano la mobilità dei giovani. Le pensioni di disabilità e invalidità elargite generosamente in aree con alta disoccupazione hanno effetti perversi, perché sono misure permanenti per aiutare famiglie in difficoltà temporanea e spesso implicano la fuoriuscita irreversibile dal mercato del lavoro.

Perché allora si parla solo di pensioni? Potenziare il welfare state significa istituzionalizzare l'assistenza a varie categorie disagiate e quindi sottrarle al patronato del sindacato. Inoltre, il welfare serve in parte per alleviare situazioni di difficoltà lavorative temporanee; ma nella cultura prevalente, che accetta come status sociale solo il lavoro a tempo indeterminato o la disoccupazione (mentre il resto è catalogato come precariato), tali situazioni sono da eliminare per legge, non da alleviare. Il terzo motivo è che un welfare efficace costa e realizzarlo richiederebbe necessariamente di tagliare le pensioni, oggi al 15% del Pil (un record mondiale). Infine, un welfare state moderno non si organizza dall'oggi al domani e richiede una comprensione profonda dei meccanismi di mercato e degli incentivi e disincentivi creati dai diversi strumenti. Ma mercato e incentivi sono due termini in gran parte alieni alla cultura prevalente, impostata sul dirigismo e la regolazione di tutti i comportamenti.

In conseguenza, il dibattito pubblico italiano ignora completamente intere problematiche del confronto scientifico internazionale. Per esempio, come disegnare un sistema di formazione e di riqualificazione che non diventi quella mangiatoia, per i sindacati e il sottobosco pubblico, che è sempre stato in Italia? Contrariamente alla retorica corrente, molti studi hanno dimostrato che la riqualificazione dei lavoratori anziani funziona raramente e che per i giovani disoccupati la misura più efficace è spesso quella di mandarli sul mercato del lavoro subito e a qualsiasi costo. Su quali categorie concentrare un sistema di reddito di ultima istanza, come evitare che diventi un sussidio di disoccupazione permanente e che venga abusato? Come impedire che i sussidi di disoccupazione disincentivino dal cercare un lavoro?

Per comprendere incentivi e disincentivi creati dai vari strumenti e capire quali di questi strumenti funzionano e quali no, è necessario sperimentarli. I Paesi anglosassoni e scandinavi e persino molti Paesi latinoamericani sono da anni laboratori di misure di welfare le più disparate.

Una lezione di queste sperimentazioni è che un sistema di welfare efficiente richiede servizi sociali efficienti. Per esempio, le misure di workfare, cioè i sussidi a termine condizionati alla partecipazione a programmi di reinserimento per accompagnare le persone dal welfare a un lavoro, spesso funzionano solo se guidati da assistenti sociali specializzati che conoscano il mercato del lavoro e siano in grado di ritagliare misure specifiche per ogni utente. L'unica sperimentazione italiana, quella del reddito minimo di inserimento, è fallita tra l'altro proprio perché gli assistenti sociali non erano stati preparati. Nel 1996 gli Usa fecero una grande riforma del welfare state in direzione del workfare, proprio per eliminare i peggiori incentivi che spingevano ad adagiarsi in una vita di sussidi statali. In Italia i giornali titolarono: «Gli Usa smantellano il welfare». Molti studi recenti hanno dimostrato che quella riforma non ha ridotto l'assistenza alle persone in condizioni di grave disagio sociale e ha avuto un grande successo nel traghettare molte famiglie in una normale vita lavorativa; ma nessun giornale italiano ne ha poi mai parlato. Perché?

di Roberto Perotti - 03-07-2007 - fonte

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