La povertà che non fa notizia

Almeno una volta l’anno c’è qualche istituto di ricerche sociali che ricorda quante famiglie, in Italia, una delle sette nazioni più industrializzate del mondo, vivano in condizioni di povertà. Una povertà che colpisce non soltanto chi un lavoro non riesce a trovarlo o chi ha una pensione troppo bassa per sopportare un’inflazione che non risparmia neanche i beni di prima necessità. Povere sono, sempre di più, anche le classi medio-basse: operai e dipendenti con stipendi a volte talmente bassi da potersi permettere solo un dormitorio pubblico.

Vittime non solo di un potere d’acquisto che si riduce progressivamente, ma anche di un sistema di garanzie sociali che nessun partito politico ha la forza – e forse la volontà – di ripensare. E poi ci sono i giovani. Accusati di essere mammoni, di non fare figli, di non voler lasciare la casa dei genitori perché allergici alle responsabilità e che, invece, troppo spesso sono costretti a far ritorno sotto il tetto della famiglia d’origine a causa di lavori precari, a chiamata, a cottimo.

A cercare di riportare l’attenzione su questo tema è stato, pochi giorni fa, l’Eurispes, divulgando i risultati di una ricerca dal titolo esplicito: “Problemi di famiglia. Senza rete: famiglia italiana di fronte alla crisi del welfare”. I dati generali su cui si basa il lavoro provengono dall’Istat e parlano chiaro: 2 milioni e 585 mila di famiglie si trovano in condizioni di povertà relativa. L’11,1% di tutti i nuclei familiari italiani, cioè 7 milioni e 577 mila persone (il 13,1% della popolazione) vive, o meglio sopravvive, con un reddito che rende impossibile far quadrare i conti alla fine del mese.

Per una famiglia di due persone, la soglia di povertà fissata dall’Istat è pari a 936,58 euro. Ma nel 2005 (anno a cui fanno riferimento gli ultimi dati disponibili) la spesa media di una famiglia povera è stata nettamente al di sotto di questo, già basso, valore, fermandosi a 737 euro al mese. Settecentotrentasette euro per pagare un affitto o il mutuo, le bollette, fare la spesa. In un precedente studio condotto dall’Istat sulle condizioni economiche degli italiani, l’5,8% degli intervistati dichiarava di non avere avuto, nei 12 mesi precedenti, i soldi per comprare il cibo necessario; il 12% non aveva potuto pagare le spese mediche e il 10,9% quelle per riscaldare adeguatamente l’abitazione.

Uno dei problemi più impellenti da risolvere rimane comunque la casa. Se l’affitto è quello di una grande città, se non c’è l’aiuto di qualche parente, se ci si trova di fronte una spesa imprevista, non è poi così difficile ritrovarsi senza un tetto ed essere costretti a bussare a un dormitorio pubblico. Certo, ci sono le case popolari. Peccato che nella maggior parte delle regioni italiane non ci siano - non si trovino - i soldi per investire in edilizia pubblica e le case disponibili non bastino mai a soddisfare le migliaia di domande in possesso dei requisiti. In ogni caso, poi, spesso passano anni prima di vedersi assegnare un appartamento ad affitto calmierato.

La sofferenza delle famiglie viene registrata anche dall’aumento dell’indebitamento degli italiani, che nel 2005-2006 hanno contratto il 9,8% in più tra mutui, finanziamenti e acquisti a rate. Mutui sempre più difficili da onorare, dato che nel 2006 il 5,1% di famiglie in più ha avuto difficoltà a pagare le rate.

Non stupisce, poi, che il 69,8% di questi due milioni e mezzo di famiglie si concentri nel Mezzogiorno. Solo in parte questa percentuale vive una situazione meno drammatica in forza di un costo della vita più basso che altrove. L’Italia non è solo, come ha sottolineato l’Eurispes, “un’Italia a due economie. Un’economia delle famiglie e un’economia delle imprese”, con un Pil in crescita da un lato e “l’assenza di redistribuzione della ricchezza” dall’altro. È anche un’Italia a due velocità, che vede aumentare il divario economico, sociale, culturale tra Nord e Sud.

Non sorprende allora che, come ha evidenziato l’ultimo rapporto della Svimez, l’emigrazione interna - da Sicilia, Puglia, Calabria verso Lombardia, Veneto, Friuli - abbia ripreso vigore, tornando ai livelli degli anni Sessanta. Nel 2004, sono stati in 270mila a trasferirsi stabilmente o temporaneamente in queste regioni. Basti dire che nel periodo 1961-1963, nelle industrie del nord si riversavano 295mila meridionali l’anno. Si torna indietro, invece di andare avanti.

A trovarsi in una situazione economica non semplice c’è anche un gruppo ben più ampio di persone a rischio di povertà. In totale, si arriva a 5 milioni e 100mila nuclei familiari, per 15 milioni di persone. Tra questi, principalmente famiglie monoreddito o con più di due figli, soprattutto se il capofamiglia è un impiegato o un operaio. La retribuzione dei primi ha perso, tra il 2001 e il 2005, il 20% della capacità d’acquisto. Quella dei secondi, si è invece ridotta del 14%.

Dando un occhio ai consumi degli italiani si riesce ad avere un quadro ancora più dettagliato. Gli anziani hanno livelli di spesa decisamente più bassi delle famiglie con componenti al di sotto dei 65 o 40 anni, inferiori anche del 30%. Inevitabile che le pensioni vengano spese per beni strettamente necessari: il 45,3% per la casa e utenze domestiche, il 22% per gli alimentari e il 5% per le spese sanitarie. Per il resto rimane ben poco.

I più giovani, del resto, non se la passano meglio. Il 43% di coloro che avevano lasciato la casa familiare dopo aver trovato lavoro, è stato costretto a rientrarvi. Anche perché, come sottolinea l’Istat, le spese di una famiglia composta da una sola persona sono circa due terzi di quelle affrontate se si è in due.

Insomma, il quadro che anno dopo anno le statistiche contribuiscono a tratteggiare conferma quanto sia inutile gioire di fronte a un Pil che riprende a segnare valori positivi. Dimostra che la percezione comune racconta un’altra storia, quella di una situazione reale del Paese che non sta migliorando affatto. E appare una storia molto più verosimile di quella propinata da chi sbandiera la ripresa economica. Ribadisce, se ce ne fosse ancora bisogno, l’urgenza di riforme sociali serie e radicali, la necessità di fare proposte concrete, di pensare ad altro, oltre alla differenza “scalino” - “scalone” e a chi deve candidarsi a leader di un partito che ancora non esiste.

Agnese Licata - 21 luglio 2007 - canisciolti.info

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